“Faccia vedere la polizza, per favore”. Il prossimo passaggio nella guerra economica che infuria fra l’Occidente e la Russia di Putin ha aspetti paradossali e di diabolica complicazione, forse anche più dei precedenti. La guerra economica ha sempre affiancato quella militare, con un peso sempre maggiore da due secoli a questa parte, dai blocchi navali fra Napoleone e l’Inghilterra in poi. Oggi ne è diventata una componente fondamentale, ma non è facile capire subito chi vince e chi perde, fra chi blocca i soldi e chi il gas. Probabilmente, nel giro di un paio d’anni, sarà la Russia, isolata e privata degli sbocchi per il suo petrolio e il suo metano, ad affrontare una crisi durissima, che la costringerà, come già avverte la governatrice della Banca di Russia a rivedere da zero il proprio sistema economico. Ma qui ed ora – anzi, più esattamente, almeno fino alla prossima primavera – l’Europa dovrà pagare un prezzo pesante. Forse, quando il presidente ucraino Zelensky avverte che la guerra deve essere vinta prima dell’inverno, non si riferisce solo alle capacità di resistenza del suo esercito, ma anche alle capacità di tenuta dell’alleanza che lo sostiene.
In ogni caso, è improbabile che un tetto al prezzo del petrolio, di cui si discute furiosamente in questi giorni, sia un elemento decisivo per l’esito finale. Il petrolio rappresenta, anche più del gas, la maggior risorsa per il bilancio del Cremlino e la sua spesa bellica. Ma prosciugarla non solo è complicato. In realtà, non lo vuole nessuno. La lista dei paradossi comincia qui.
Anzitutto, Washington e le capitale europee stanno parlando di una misura (il tetto al prezzo del petrolio russo) che non li riguarda affatto. Gli americani hanno già adottato un embargo totale sul greggio di Mosca, l’Europa lo farà entro fine anno. Il tetto riguarda, dunque, il petrolio degli altri: l’India, ad esempio, o, in linea di principio, la Cina. Perché sollecitare un tetto e non, invece, un embargo anche per loro? Perché – secondo paradosso – togliere dal mercato tutto o gran parte del petrolio russo farebbe salire ancora i prezzi, aggravando l’inflazione e ingrassando il bilancio di Putin con il sovrapprezzo applicato sui barili più scarsi. Quindi, far fluire il greggio russo sul mercato extraeuropeo e extramericano, ma ad un prezzo più magro. L’unico modo che l’Occidente ha per arrivare a questo risultato, su cui non ha influenza diretta, è agire sui noli di assicurazione che tutte le petroliere sottoscrivono: niente polizza, se il prezzo del petrolio trasportato è superiore al tetto. Poiché il 95 per cento dei noli di assicurazione nel mondo vengono forniti dai Lloyd’s di Londra, la leva per intervenire c’è. Ma, anche se indiani (e cinesi) non si adoperassero per aggirare questo semiblocco, emanando, ad esempio, polizze di assicurazione statali, i problemi non finiscono qui.
Tetto, infatti, ma a che altezza? Oggi, sul mercato mondiale, il greggio si scambia a 118 dollari circa al barile. L’Ural, quello russo, però, già attualmente si compra con un cospicuo sconto, a 85 dollari, perché, in questo clima di sanzioni, gli operatori lo trattano malvolentieri. Il tetto, dunque, dovrebbe essere fissato più in basso. Ma quanto più in basso? Chiudere i pozzi, nel gelo siberiano, è pericoloso, perché si rischia di renderli inservibili. L’ideale, dunque, sarebbe di spingere gli operatori russi a lavorare in perdita o quasi. Ma estrarre il greggio siberiano costa 45 dollari al barile. Si può pensare ad un tetto a 50 dollari, contro i 118 del mercato, per così dire, libero? L’ennesimo paradosso è che una mossa così arrischiata potrebbe anche essere possibile e, insieme, inutile. A dare retta a parecchi analisti, nel giro di pochi mesi quel tetto rischia di diventare obsoleto. Nel senso che ci penserà il mercato a sgonfiare i prezzi. Se il mondo va verso una recessione globale (attesa in America, in Europa, in Cina) il prezzo del barile si sgonfierà da solo. La previsione è di un barile che scende a 75 dollari. Applicate lo sconto di 30 dollari sull’Ural che viene praticato oggi e precipitiamo a 45 dollari, esaurendo i margini di profitto degli operatori russi e svuotando il bilancio del Cremlino.
Insomma, il paradosso dei paradossi è che la recessione innescata da Putin con l’invasione dell’Ucraina e i sommovimenti creati dai suoi ricatti sui mercati dell’energia, alla fine, prima dei suoi avversari occidentali, metterebbe in ginocchio lo stesso Putin. Gli studiosi di storia economica, fra qualche anno, avranno da divertirsi.
Maurizio Ricci