Suscita una grande perplessità il dibattito in corso sulle modalità di difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni che segue una linea spesso del tutto estranea, se non incompatibile, in termini di coerenza con gli aspetti fondamentali del ciclo economico che stiamo attraversando. Data la situazione in cui stiamo vivendo è certamente possibile che si possano frenare gli effetti più gravi dell’inflazione riducendo le imposte, dirette e indirette, e il peso degli oneri contributivi, il cosiddetto “cuneo”. Sembra altrettanto evidente che questi interventi debbano avere natura eccezionale e limitata nel tempo per evitare che nel lungo andare, a partire dalla crescita degli interessi del debito pubblico, alimentino ulteriori dinamiche inflazionistiche. Paradossalmente si può osservare che la convergenza tra sindacati e imprenditori per addossare allo stato il costo di una crescita indiretta delle retribuzioni (taglio del cuneo fiscale) divenga una via uscita comprensibile ma troppo semplice e si presti non poco ad un parallelismo con gli effetti della scala mobile negli anni ’80 che finiva, nella rincorsa prezzi salari, per alimentare l’inflazione.
Non è un caso che il segretario della Cgil Maurizio Landini, riconoscendo implicitamente che si potrebbe aprire un buco pericoloso nei conti pubblici, invoca nuove misure di prelievo fiscale nei confronti di non meglio precisate “rendite” evocando anche la mitica Imposta patrimoniale. Colpisce anche il fatto che imprenditori e sindacati non riprendano con forza, e con un pari realismo non rinunciatario, la battaglia sull’evasione fiscale che pure è stimata in un valore annuo di un centinaio di miliardi. La criticità più grave di questo dibattito non sta negli interventi rivendicati, alcuni dei quali sono in sé condivisibili, ma nella necessità, alla lunga inevitabile, della loro copertura finanziaria giacché stiamo parlando di spesa pubblica. Se guardiamo alla fatica con cui il parlamento ha licenziato, ricorrendo a un sostanziale rinvio, i recenti provvedimenti sul nuovo catasto, sull’applicazione della direttiva “Bolkestein” sulle imprese balneari e sul sistema duale per le partite IVA ci rendiamo conto della paralisi del sistema fiscale (e assistenziale) che ha bisogno di un vero progetto di riforma e non è facilmente governabile attraverso singole misure di aggiustamento campo di battaglia prediletto dalle mille corporazioni di interesse del nostro paese. Ma esiste un’alternativa credibile anche per il lavoro dipendente? Innanzitutto bisogna ricordare che, almeno allo stato attuale, siamo di fronte ad una inflazione elevata che per fortuna non è accompagnata da una stagnazione. Questo significa che esiste una domanda a cui i produttori di beni e servizi possono rispondere in una competizione di prezzo e qualità. La contrattazione del sindacato italiano si dispiega su due livelli, quello del contratto nazionale e quello del contratto aziendale. La richiesta di sottoscrivere i contratti scaduti è non solo legittima ma necessaria.
D’altra parte è difficile e concettualmente sbagliato che questo sia lo strumento di ricupero di tutta l’inflazione, tanto più è ardua la richiesta di ripristinare gli automatismi abbandonati dopo l’accordo del 1992. Il sistema delle imprese è per sua natura eterogeneo per quanto riguarda i margini di cui dispongono le singole imprese. Fermo restando un onere comune che può essere assorbito da tutte le imprese di un settore, che è determinato dalle condizioni generali del comparto, lo spazio che si apre è quello della contrattazione aziendale in cui i margini operativi sono diversi per ciascuna impresa ma che generano uno scambio virtuoso tra retribuzione aggiuntiva e produttività senza produrre alcun effetto inflazionistico. Questo approccio realistico rafforzerebbe il sindacato responsabilizzandone i delegati democraticamente eletti in tutti i luoghi di lavoro, uno straordinario apparato in servizio attivo permanente. Qualcosa dovremmo imparare dal passato, pur riconoscendo che non si possono meccanicamente sovrapporre situazioni e circostanze lontane nel tempo. Negli anni ’50 la Cgil che faceva del contratto nazionale la bandiera esclusiva della propria lotta mentre la Cisl, anche attingendo allo studio delle esperienze del sindacato americano, elaborò un progetto di contrattazione aziendale mentre la Uil, sulla base dei primi progetti di programmazione democratica si cimentò sulle politiche settoriali. La Cgil pagò un prezzo altissimo per la sua scelta centralista e subì una sconfitta drammatica alle elezioni di commissioni interne, a partire dalla Fiat, al punto che in sede di revisione critica di quanto accaduto Vittorio Foa lanciò la nuova parola d’ordine “ritorno in fabbrica!”. Sono passati più di settant’anni ma la sostanza di una scelta politica coerente con la realtà non è cambiata. Le esperienze più attuali a cui richiamarsi rimangono le trattative e le intese con il governo Craxi, condotte dal ministro del lavoro Gianni De Michelis che accompagnarono l’intervento sulla scala mobile (La politica dei redditi presentata alle parti sociali, 14 febbraio 1984) e quelle più recenti del “patto sociale” con il governo Ciampi nel 1993.
Tutto ciò lascerebbe ancora irrisolta la questione del modello contrattuale, della rappresentanza e della rappresentatività del sindacato, della libertà di contrattazione e della definizione delle regole attraverso le quali si determina, in sede aziendale o di settore, la legittimità di un accordo e la sua applicazione “erga omnes”. Questa è materia più complessa ma certo una svolta sui contenuti della politica contrattuale aiuterebbe a rispondere in misura efficace a questi interrogativi.
Walter Galbusera