Le elezioni europee sono ormai alle porte, ma è inutile aspettarsi scosse significative agli equilibri politici del paese. Le attese riguardano soprattutto quello che accadrà all’interno dei due schieramenti. E, nell’insieme, l’ipotesi più probabile è la conferma dei rapporti di forza attuali. Più intriganti, naturalmente, le due subordinate: una netta affermazione del centrodestra o, invece, un suo passo falso. Ma intriganti rispetto a cosa? Non la gestione del paese, che le europee non hanno mai messo in discussione. Invece, il cammino verso il vero scontro politico che ci aspetta nel giro di un anno, più o meno: un bivio epocale, “la madre di tutte le battaglie” come diceva una vecchia metafora, una ipoteca sul futuro del paese. Ovvero, il referendum. Non quello della Cgil sul Jobs Act. Quello promosso dal governo sul premierato e la riforma costituzionale. Il Parlamento lo sta varando in questi giorni a ritmo serrato, ma mancherà la maggioranza richiesta per le modifiche alla Costituzione, rendendo inevitabile il referendum. E quel voto segnerà in profondità l’assetto istituzionale dell’Italia, aprendo o meno la strada alla orbanizzazione del paese.
Il governo di centrodestra si sta già avviando a passo spedito su una riproposizione del modello Ungheria, che ha consegnato a Orban le chiavi di una gestione autoritaria. Gli strumenti sono sinistramente simili. Ecco l’autonomia differenziata, che sancisce la divisione fra Regioni, blindando i margini di manovra del Nord ricco – e orientato a destra – sulle spalle delle Regioni povere. L’incessante opera di ridimensionamento e ritaglio dei poteri della magistratura, la riforma del Csm che ne limita l’indipendenza, in prospettiva la separazione delle carriere che riconduca i pubblici ministeri nell’orbita delle direttive governative. La colonizzazione della Rai, che potrà traballare negli ascolti, ma resta di gran lunga il luogo privilegiato di informazione per l’elettorato. Messi sotto tutela due pilastri della divisione dei poteri di uno Stato moderno (giudiziario e media), la riforma costituzionale risistema gli altri due: esecutivo e legislativo.
Per fermare questa deriva, bisogna vincere il referendum. Non solo e non tanto perché, sconfessato dalle urne, il governo non sarebbe più lo stesso, ma soprattutto perché, con la riforma promossa dal referendum, sarebbe l’Italia a non essere più la stessa. Occorre, tuttavia, evitare di commettere lo stesso errore che compie la riforma Meloni, sulla scia, peraltro, di tante altre riforme del passato: ridisegnare le istituzioni, partendo dalla testa, anzichè dalla base. Quando si pone mano ai meccanismi della politica, infatti, troppo spesso ci si concentra su quello che interessa ai politici: chi sono, come si confrontano gli uni con gli altri, come selezionano i leader, come si gestisce il potere. Il dibattito sulla riforma Meloni si involtola, infatti, sul premierato, chi scioglie le Camere, chi subentra al premier. E’ difficile seguire le complicazioni giuridiche legate a queste innovazioni per gli esperti, figuriamoci per il normale elettore. Si rischia di votare per slogan (“sì ad un capo del governo che abbia il potere per governare”). Invece, la scelta è molto più semplice, radicale, comprensibile: comanda il popolo elettore o il premier? Secondo la Meloni, il premier. E il popolo si adegua.
La chiave della riforma, infatti, è in quello che non c’è: il sistema elettorale. Appunto, la base del sistema. Personalizzazione della competizione, premier forte, garanzie per la stabilità – giuste o sbagliate che siano – non sono, infatti, necessariamente in contraddizione con la democrazia e neanche invenzioni di Orban. Ma, guardiamo ai paesi in cui queste caratteristiche esistono, senza compromettere la democrazia: Usa, Francia, Gran Bretagna, cioè regimi presidenziali o molto simili. Cosa li accomuna? Il grado di indipendenza e di potere dei parlamentari, rispetto al governo.
Il sistema politico americano è inceppato ed arrugginito, ma è congegnato in modo che, quasi sempre, il Congresso – o, almeno, uno dei due rami – è governato da un partito diverso da quello del presidente. In Francia, i due momenti elettorali (presidenziali e parlamentari) sono distinti nel tempo e danno esiti (come in questo momento) che non coincidono. A Londra, le continue rivolte dei parlamentari hanno trasformato Downing Street in una giostra che non si ferma mai.
America, Inghilterra e Francia hanno tutt’e tre un governo forte e, insieme, un sistema elettorale uninominale: in ogni collegio si nomina un solo parlamentare. Niente liste sovrabbondanti, preferenze fumose e ammucchiate degli eletti. Non è un sistema al di sopra di ogni difetto, ma assicura un punto chiave: l’eletto risponde agli elettori, prima che al partito e il partito deve tener conto che lui – e non uno qualsiasi – è stato capace di farsi eleggere. Chi segue la politica americana conosce bene Joe Manchin, il senatore democratico che ha osteggiato e spesso sabotato i provvedimenti voluti dal presidente del suo partito, Joe Biden, senza che nessuno potesse far nulla, perché gli elettori democratici del West Virginia volevano lui al Senato. Il premier inglese che sopravvive ad una rivolta eviterà di chiamare al governo un deputato ribelle, ma difficilmente potrà togliergli il collegio.
Insomma, il premier o il presidente, in questi paesi, si confronta con un Parlamento dotato di un proprio autonomo potere. Niente del genere da noi, dove le liste dei candidati vengono pesate e preparate sulla scrivania del premier o del candidato premier, l’elettore vota al buio o indica preferenze puramente formali, a meno di non essere un militante sperimentato, il candidato bocciato in Veneto rispunta in Sicilia, quello eletto nel collegio sicuro di Pontedera, buttato nella mischia a Milano.
E’ in questo squilibrio il vero punto debole della riforma Meloni e anche il più facilmente comprensibile. Quello che ci propongono è un premier forte, che si confronta con una maggioranza parlamentare, in cui ogni deputato e senatore è stato scelto personalmente da lui o lei, uno per uno, e che gli o le devono non solo la permanenza in carica per tutta la legislatura, ma anche il proprio futuro politico, pena il non entrare più in alcuna lista. Un Parlamento in grado di dire non molto di più che “prego, si accomodi”.
Maurizio Ricci