di Riccardo Giovani – Responsabile lavoro e contrattazione di Confartigianato
Negli ultimi anni si è affermata una tendenza – che alligna non solo nell’opinione pubblica meno avvertita – di appiattire ogni discussione relativa alla tematica del lavoro sulla questione della flessibilità, come se si trattasse di esprimere il proprio voto in un ipotetico referendum che abbia come quesito l’abolizione o meno della precarietà dal mondo del lavoro.
Il punto è che nella società e nell’economia moderne (o meglio, postmoderne) nelle quali tutti operiamo, il decisore politico non ha certo il potere, con un semplice editto, di far sparire la disoccupazione, il lavoro sommerso, i bassi salari, il precariato, il divario esistente fra il Sud ed il Nord del nostro Paese. Va poi rilevato che, rispetto al 2001, l’epoca in cui venne presentato il Libro Bianco sul mercato del lavoro, sembrano registrarsi ulteriori passi indietro nel dibattito sulle riforme.
Mentre alcuni anni fa sembrava condivisa dai più la necessità di riformare il nostro mercato del lavoro, anche alla luce degli orientamenti europei, e lo scontro dialettico si incentrava sul come fare le riforme e non se farle, oggi si ha l’impressione di assistere ad un sostanziale revirement. Tanto che si sono levate voci non isolate che hanno chiesto espressamente non solo di abrogare in toto la legge 30/2003 ed il successivo decreto attuativo, ma anche parte della legge 196/1997.
In tale contesto, atteso che non esistono ricette miracolistiche in grado di far sparire dall’oggi al domani i cronici mali che affliggono il nostro mercato del lavoro, occorre che si diffonda la consapevolezza della necessità delle riforme. Occorre continuare il processo di modernizzazione del mercato del lavoro, così come occorre modernizzare la regolamentazione dei rapporti di lavoro.
Il diritto del lavoro è, per sua natura, diritto in evoluzione. L’immobilismo, in questa materia, non paga. Ecco perché sarebbe un errore abrogare la legge 30, che pure necessita di alcune correzioni, e, a maggior ragione, sarebbe un errore abrogare le riforme precedentemente attuate, le quali hanno comunque dato buoni frutti. La riforma del lavoro varata nel 2003 ha, in primo luogo, avuto l’innegabile merito – in ciò ponendosi su una sostanziale linea di continuità con la normativa degli anni immediatamente precedenti – di stabilizzare il percorso di riforma e miglioramento dei servizi per l’impiego, ad incominciare dai servizi pubblici.
Mi sembra eccessivamente pessimista chi non riesce a cogliere il cambiamento in atto nei servizi pubblici per l’impiego. Certamente, c’è ancora molto da fare per migliorare l’efficacia dell’incrocio fra domanda e offerta di lavoro ed il processo di riforma è ancora a macchia di leopardo, ma non si può negare l’evidenza rappresentata dal fatto che il vecchio collocamento pubblico, come organismo meramente burocratico che fungeva solo da punto di raccolta delle comunicazioni e di smistamento dei nulla osta alle assunzioni, è ormai in via di definitivo superamento anche nella mentalità degli operatori pubblici. Non va sottovalutato l’impegno dei Centri per l’impiego e di molte province nel cercare di diventare soggetti qualificati di politiche attive del lavoro. Al contrario, sono forse i soggetti privati che non hanno ancora colto pienamente le opportunità loro concesse dalla legge 30 e dal decreto n. 276 nelle attività di intermediazione, ricerca e selezione e supporto alla ricollocazione professionale dei lavoratori.
Sul piano dei rapporti di lavoro, va preliminarmente osservato che la legge 30 non ha minimamente modificato la regolazione del lavoro standard. Non vi è infatti stata alcuna modifica riguardo alla disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato. Sotto questo profilo, appare pertanto quanto meno ingenerosa l’accusa, frequentemente rivolta alla normativa in questione, di avere precarizzato il lavoro.
Sono stati introdotti, è vero, nuovi istituti contrattuali flessibili, i quali sono però destinati ad operare su un terreno diverso da quello dell’occupazione standard, poiché i contratti flessibili riguardano soprattutto l’occupazione interstiziale, cioè lavori che, diversamente, sarebbero destinati a restare nell’area del sommerso o che comunque non condurrebbero ad assunzioni standard. Si può quindi discutere sulla reale efficacia dei tipi contrattuali flessibili nel creare nuova occupazione aggiuntiva, ma è eccessivo sostenere che essi inducano i datori di lavoro a non stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato.
In realtà gli unici strumenti contrattuali (che alcuni definiscono atipici, ma, ovviamente, non si tratta di atipicità giuridica, trattandosi di istituti ben regolamentati sul piano normativo) in grado di fare un po’ di concorrenza al contratto di lavoro standard sono il contratto a termine ed il lavoro temporaneo.
Ma anche su questo aspetto, l’indirizzo di politica del lavoro da perseguire non è quello di scoraggiare con normative disincentivanti l’utilizzo di tali contratti ma, al contrario, quello di incentivare il ricorso al lavoro standard. Infatti, un’operazione finalizzata soltanto a disincentivare il contratto a termine o l’interinale senza un parallelo meccanismo di incentivazione del lavoro subordinato a tempo indeterminato, finirebbe con il dissuadere le imprese migliori a crescere, con il conseguente detrimento per l ’occupazione regolare.
L’invito che, a conclusione di queste brevi riflessioni, chi opera concretamente sul campo si sente di rivolgere al legislatore è quello di fare normative più chiare e più semplici. Molti degli operatori che si sono cimentati con alcune disposizioni del decreto n. 276/2003 hanno infatti avvertito la sensazione, ogni volta che sono stati chiamati a dare applicazione ad un istituto, di dovere comporre un puzzle costituito da una moltitudine di tessere (legge delega, decreto legislativo, decreto correttivo, circolari, interpelli, leggi regionali, delibere di giunta), senza essere in grado di conoscere pienamente il disegno da comporre e con la conseguente ansia di incappare involontariamente in una censura da parte della magistratura del lavoro, magari per una inosservanza di tipo formale