Il secondo paragrafo del patto sociale 22 dicembre 1998, promosso dal Governo presieduto dall’on. D’Alema così disponeva:
“ Il metodo della concertazione
Un’efficace politica dei redditi non può essere disgiunta da un quadro stabile di concertazione. Il
rafforzamento e lo sviluppo anche a livello locale della concertazione sono necessari sia per la
crescita dell’occupazione sia per garantire il rispetto dell’autonomia e l’esercizio della
responsabilità che si esercitano nel territorio in forma autonoma e con poteri crescenti.
La scelta concertativa espressa dal Protocollo del 23 luglio 1993 deve divenire una forte procedura
di coinvolgimento volta a stabilizzare e potenziare le scelte di politica economica e sociale.
L’ingresso nella Unione Economica e Monetaria Europea impone di individuare un assetto delle
regole coerente, trasparente e che offra certezza, anche sulla base dei processi decisionali
individuati nel quadro comunitario.
Ne consegue una struttura della concertazione così delineata:
per le materie di politica sociale che comportino un impegno di spesa a carico del bilancio dello
Stato, il Governo procederà ad un confronto preventivo con le parti sociali, stabilendo anche termini
temporali per la formulazione di valutazioni ed eventuali proposte correttive;
per quanto attiene, invece, alle materie che incidono direttamente sui rapporti tra imprese, loro
dipendenti e le rispettive organizzazioni di rappresentanza e non comportino un impegno di spesa a
carico del bilancio dello Stato, ovvero per le parti normative di provvedimenti che, pur
comportando indirettamente tali impegni di spesa, riguardino le medesime materie, incluse le
relative discipline comunitarie, sarà definito un sistema di regole che indichi un percorso
temporalmente regolamentato, atto a sviluppare i rapporti bilaterali delle parti sociali nella ricerca
ed individuazione di soluzioni coerenti con gli scopi e gli obiettivi della concertazione.
In particolare, sulle materie appena richiamate:
il Governo avvierà un confronto preventivo con le parti sociali sugli obiettivi generali
dell’intervento in oggetto. Sui contenuti di tale provvedimento e sugli effetti di carattere sociale ed
economico le parti sociali esprimeranno le loro posizioni sul merito. Il Governo terrà conto delle
osservazioni pervenute, valuterà l’opportunità di procedere a tale intervento e le soluzioni
normative coerenti;
nella suddetta fase di confronto, le parti sociali potranno decidere, di comune intesa, di disciplinare,
interamente o in parte, i contenuti dell’intervento attraverso un accordo tra di loro. In tal caso, esse
richiederanno al Governo di fissare un termine prestabilito di durata ragionevole, entro cui le parti
potranno concluderlo;
in questo caso, ove l’accordo sia concluso nei tempi prestabiliti e sia coerente con gli orientamenti
precedentemente espressi dal Governo ovvero si traduca in un patto concertativo trilaterale, il
Governo stesso si impegnerà a promuoverlo e sostenerlo nelle sedi parlamentari, anche utilizzando
forme di consultazione permanente con le stesse parti.”
Giova ricordare il contenuto del testo sopra riportato, perché il Governo si avvalse nell’occasione della collaborazione di Massimo D’Antona (uno degli ultimi contributi prima del suo assassinio avvenuto il 20 maggio 1999). A maggior ragione è necessario rileggerlo oggi dopo che le proposte del Governo presieduto dal sen. Monti hanno provocato un vivace dibattito per il metodo e per i termini ivi contenuti.
Soffermiamoci sul metodo.
Nelle settimane scorse il ministro Riccardi, intervenendo alla presentazione di un libro del giornalista Damilano, ha ricordato che Monti non ha cambiato idea sulla concertazione perché già nei primi anni novanta (Riccardi ha citato –“L’Unità” del 15 marzo 2012 – l’intervento al Forum Ambrosetti del 4-6 settembre 1992) l’allora professore si chiedeva: “che bisogno c’è di infliggersi l’onere supplementare della ricerca faticosa di solito notturna dell’accordo con le parti sociali?”.
Quando Padoa-Schioppa parlò di bamboccioni Lucia Annunziata scrisse – “La Stampa” del 18 novembre 2008 – che il problema consisteva nell’asciuttezza del linguaggio non politico e aggiungeva: “I tecnici che usano le curve e i dati per leggere la realtà spesso non li sanno definire, non hanno aggettivi per farli lievitare in progetto, sicuramente non ne vedono la traduzione a pelle scoperta, che è quella dell’elettore”, offrendo il destro a polemiche che non aiutano a capire (aggiunta mia). Allora è più fedele e meno impreciso riferirsi al testo degli articoli di Monti su “Il Corriere della Sera”. Leggiamo il commento all’accordo raggiunto il 3 luglio 1993 e firmato il successivo 23 dal Governo presieduto da Ciampi.
“Dopo aver sottolineato l’ importante significato culturale e la grande rilevanza pratica di questo accordo, che per quanto riguarda il mercato del lavoro rende l’ economia italiana un po’ meno lontana da quella europea, siano consentite due note di cautela…Suscita preoccupazione il fatto che, nella prima sezione del testo dell’ accordo, il consociativismo nella politica economica venga eretto a sistema e formalizzato più di quanto finora fosse mai avvenuto. Ha ragione il ministro Giugni a commentare: “Ora la politica economica la decidono anche le parti sociali”. Per i motivi tante volte esposti su queste colonne, questa prospettiva non e’ affatto rassicurante. Non e’ rassicurante leggere che la politica economica del governo (il quale pure agirà “nell’ esercizio dei propri poteri e delle proprie responsabilità “) si snoderà attraverso due “sessioni” con le parti sociali: a maggio giugno e a settembre. Non e’ rassicurante leggere che il governo condurrà politiche di bilancio “tese alla riduzione del debito e del deficit dello Stato” “d’ intesa con le parti sociali”, quando sappiamo che tante volte in passato sono state proprio le “intese con le parti sociali” a far crescere debito e deficit.(“Il Corriere della Sera”, 6 luglio 1993).
Giugni risponde dalle colonne de “La Repubblica” il 15 settembre dello stesso anno:
“Monti porgeva anzitutto un caldo invito a por fine alle prassi consociative. Con questo termine, ha indicato non il consociativismo politico, ma quello tra governo e parti sociali, alias la gestione trilaterale dell’ economia, in genere chiamata anche, con brutta terminologia, neocorporativismo. Procedere per definizioni è però in tal materia alquanto pericoloso; meglio è se il concetto e la definizione si sciolgono nei dati di esperienza che vogliono rappresentare. Ed allora: se cardine della manovra codificata nell’ accordo triangolare di luglio è l’ impegno a comportamenti coerenti rispetto agli obiettivi, assunti come comuni, di controllo dell’ inflazione e di risanamento della finanza pubblica – presupposti, a loro volta, per una attendibile politica per l’ occupazione – vi è seriamente da chiedersi se consenso e coerenza possano essere ottenuti qualora non ci sia stata partecipazione alla determinazione degli obiettivi: fermo restando, ma questo è fuor di dubbio, che l’ ultima parola spetta a chi rappresenta la comunità nazionale nel suo insieme e cioè al governo e al parlamento…Resta il fatto che, se efficienza deve coniugarsi con solidarietà, quest’ ultima non può appagarsi di prescrizioni morali, ma deve esprimersi in regole e in strumenti per promuoverne l’ osservanza. La vera sfida alla fin dei conti non è neppure nella quantità e neppure nella qualità tecnica di queste regole e di questi strumenti. E’ nella loro congruenza con le nuove strutture del mercato del lavoro e dei beni”.
Monti stigmatizza la frase di Giugni “Ora la politica economica la decidono anche le parti sociali” e non coglie il senso di soddisfazione per il traguardo raggiunto da chi trent’anni prima aveva collaborato in modo determinante a dar corpo alla politica dei redditi con la redazione del protocollo sulla contrattazione articolata, arenatosi ben presto nelle secche del confronto muscolare che ha caratterizzato a lungo il sistema sindacale italiano. Si ha come l’impressione di due pensieri generazionali che non si parlano, pur comprendendo, entrambi, quale sia il nucleo del problema. Sia consentito a questo riguardo proporre l’ascolto di quel che disse Strehler quando recensì “Prova d’orchestra” di Fellini: “L’apologo non è infantilmente chiaro, ma sottilmente ambiguo e tragico come il pianeta oscillante che infrange i muri dell’uditorio in rivolta…C’è… il sentimento di essere qui e di dover suonare insieme la vita. Ma come?…Soli o diretti? E se diretti, diretti da chi e come?” (“Il Corriere della Sera”, 14 marzo 1979). Forse è opportuno non dimenticare che un direttore d’orchestra riceve il voto di “gradimento” dei suoi professori (termine espressivo della competenza specialistica), così come il direttore di un giornale quello dei suoi giornalisti.
Non so quanto in Ciampi e in Giugni abbia pesato il riferimento traslato nel varo del concetto di “concertazione” (attività propedeutica al concerto), termine non banale in un Paese patria del melodramma.
E qui vengono le “dolenti note”. Che cosa hanno fatto le parti sociali nella loro autonomia, senza aspettare ogni volta l’intervento dello Stato, per dare gambe istituzionali al processo delineato nel 1993? In questo senso la proposta di D’Antona, che viene trasfusa nel patto del 22 dicembre 1998, che non si appiattisce su vincoli concertativi, appare come l’ennesima occasione perduta. Essa va ripresa, ristudiata, attualizzata perché se nel tentativo di Monti c’è la necessità di parlare ai mercati non trascurando la pedagogia sociale (colta al volo dal Wall Street Journal), la risposta non può scaturire dal rintanarsi in rifiuti aprioristici. La nostra Costituzione, fondata sul lavoro, ha molto investito sulle formazioni sociali, sui corpi intermedi, cui riconosce la potenzialità positiva nel contribuire allo sviluppo dell’individuo e della società. Il ruolo che ne consegue non è riconosciuto una volta per tutte: esso va guadagnato ogni giorno e non riproposto pigramente, omettendo, tra l’altro, il confronto dialettico con la “Costituzione” europea, fondata sull’economia sociale di mercato (art. 2.3 come risultante dal Trattato di Lisbona). La divergenza non è soltanto valoriale, perché se il lavoro rimane locale, tale non è il capitale “globale”; il che acuisce i problemi e l’esigenza di un esame serio e non gridato da parte di tutti.
29 marzo 2012
Raffaele Delvecchio