Il Grande Salvataggio del sistema imprenditoriale italiano durante la tempesta – fra pandemia e lockdown – del 2020 è costato quasi 50 miliardi di euro, circa tre punti di Pil. E’ tanto? E’ poco? Si poteva fare di più? Si doveva fare di meno? Intanto, i numeri. Allo scoppio della pandemia, nell’inverno 2020, un’azienda italiana su quattro aveva un bilancio traballante, con quasi un milione e mezzo di posti di lavoro a rischio. Gli interventi diretti del governo hanno salvato dal fallimento migliaia di queste aziende già in crisi ed evitato centinaia di migliaia di licenziamenti. Non tutte le misure hanno rivelato la stessa efficacia, ma l’accusa – e il timore – di avere ingessato il sistema delle imprese, replicando migliaia di zombie (aziende di fatto decotte, tenute in piedi solo dai sussidi statali) non trova riscontro: di fatto, meno del 30 per cento delle imprese che erano in crisi a fine 2019 è stato capace di approfittare della inaspettata ciambella di salvataggio dello Stato e solo il 40 per cento dei posti di lavoro a rischio è stato messo in sicurezza. Il resto – già condannato, pandemia o no – è affondato comunque.
Ma l’azione del governo ha impedito la frana e i crolli a catena. Bruno Buchetti e Antonio Parbonetti hanno esaminato i bilanci delle 600 mila aziende italiane in attività a fine 2019. Sulla base di ricavi di quell’anno e del calo di fatturato registrato nei primi tre mesi 2020 dopo il lockdown, calcolano che un quarto, circa 153 mila imprese, avrebbe avuto dal virus il colpo di grazia e finito per chiudere il 2020 con un patrimonio netto negativo, ovvero con risorse disponibili inferiori a debiti e obbligazioni, al di là dei minimi legali, dunque tecnicamente fallite. A saltare, insieme alle 153 mila aziende, sarebbero stati anche quasi 1 milione 400 mila posti di lavoro.
Entra in scena il governo. Buchetti e Parbonetti non tengono conto di uno degli strumenti più incisivi – le garanzie sui crediti – perché non c’è un esborso diretto dello Stato e perché gli effetti li vedremo, probabilmente, solo nei prossimi anni. Ma esaminano quattro interventi diretti.
Il primo – e di gran lunga il più efficace, costoso ed importante – è la cassa integrazione specifica Covid-19. E’ costata, secondo i dati Inps, 32 miliardi di euro, ma ha tamponato il grosso della crisi. Circa 15 mila imprese, pari al 10 per cento delle 150 mila traballanti, sono riuscite a galleggiare grazie alla Cig e i posti di lavoro sopravvissuti sono oltre 280 mila, un quinto di quelli legati a imprese con i bilanci scoppiati. Di fatto, il salvataggio di ogni impresa è costato – in media – 2 milioni di euro, che si traducono in 113 mila euro per dipendente scampato alla chiusura.
Assai meno costosa (577 mila euro per azienda, 50 mila euro per dipendente) la decisione di consentire alle società di sospendere o rinviare gli ammortamenti. E’ una misura, di fatto, puramente cosmetica, che consente di dare fiato (temporaneamente) ai bilanci, facendoli sembrare meno compromessi e in odor di fallimento. In realtà, la crisi resta crisi, ma l’azienda guadagna tempo nel tentare di uscirne: valutarne gli effetti sarà possibile soltanto in futuro.
Sono costati, invece, 3 miliardi di euro l’uno gli interventi per compensare il costo degli affitti e, soprattutto, quello per colmare la riduzione dei ricavi. Qui erano in ballo le aziende con ricavi inferiori a 5 milioni di euro l’anno, quindi la maggioranza delle società italiane e il requisito era dimostrare di aver perso, nell’aprile 2020, il 30 per cento dei ricavi rispetto all’aprile 2019. In tutto, secondo i due studiosi, l’assai discusso contributo per mancati ricavi avrebbe consentito di salvare poco più di 2 mila aziende già in crisi, il cui patrimonio sarebbe risultato negativo, per un costo di 265 mila euro per posto di lavoro salvato, 1,5 milioni – in media – per azienda. In realtà, la vera debolezza della misura è che fu pensata come misura-tampone, nella convinzione di un Covid ormai alle spalle. Invece, il Covid è tornato, ma non necessariamente nel 2020, con il risultato che più di un’azienda, probabilmente, dopo l’aprile 2020 ha recuperato il fatturato perduto.
Del resto, questo è il pregio – e il limite – dei cerotti. L’alternativa di salvare, invece, tutti e comunque, che aveva intrigato più di un politico, sarebbe stato molto più onerosa. Decidere un intervento a tappeto, che cancellasse tutte le perdite 2020, e non solo quelle fino ad aprile, sarebbe costato infatti 93 miliardi di euro, di fatto metà dei fondi messi a disposizione dall’Europa con il Pnrr. Ma anche ricapitalizzare tutte le aziende con patrimonio netto negativo – ovvero l’apoteosi degli zombie – sarebbe pesato per 39 miliardi di euro.
Maurizio Ricci