di Roberto Santarelli – Direttore generale di Federmeccanica
E’ opinione condivisa che la crisi che stiamo vivendo segna uno spartiacque nella storia economica e sociale del mondo. Se questo assunto è corretto è allora lecito chiedersi se, nella piccola storia delle relazioni industriali del nostro Paese, l’Accordo quadro del 22 gennaio (seguito dall’Accordo interconfederale tra Confindustria e CISL, UIL, UGL del successivo 15 aprile) è l’ultimo del mondo pre-crisi oppure il primo di quello post-crisi. Non si tratta di un interrogativo retorico o di scuola. Si tratta invece di porsi la questione in termini nudi e crudi, in un mondo in rapida trasformazione, circa la continuità/discontinuità di un sistema di relazioni industriali-sindacali-contrattuali forgiato su una realtà fatta di “mercati interni”, di tecnologie stabili e durevoli, di assetti organizzativi/produttivi ancora fortemente segnati dal ford-taylorismo. Un sistema di relazioni che ha tradotto quei dati strutturali, ormai non più attuali, in pratiche sindacali di conservazione e protezione del lavoro secondo schemi di mercati del lavoro immobili ed appiattiti, da un lato, e resistenza delle imprese ad uscire da logiche di gestione rigidamente gerarchico/burocratiche o, al contrario, paternalistiche. Lo strumento cardine, anche simbolico, di questo assetto è stato il Contratto Nazionale di Lavoro di cui, con gli accordi prima citati, si ridefiniscono ruolo e funzioni all’interno di un riequilibrio del sistema a favore del livello decentrato. A mio avviso il risultato, comunque positivo, rischia di essere superato non solo dalle emergenze ma da quei cambiamenti che, per forza di cose, non erano stati messi in conto nel lungo e faticoso negoziato che ha portato all’accordo. Cambiamenti dei quali, sicuramente, non riusciamo ancora a cogliere tutte le implicazioni in termini di trasformazione della società e del lavoro che ne è la più importante modalità di rappresentazione. D’altro canto sono state le stesse parti firmatarie a dare all’accordo una durata breve, quattro anni, ed un carattere sperimentale.
L’accordo, frutto di una lunga e complicata negoziazione, è certamente positivo in quanto dà finalmente una risposta decisamente orientata, in termini di contenuti e strumenti, alle domande ed ai suggerimenti formulati in modo nitido già dieci anni or sono da un gruppo di valenti studiosi (tra i quali, non è superfluo ricordarlo, Massimo D’Antona e Marco Biagi) riuniti in una non dimenticata commissione presieduta da Gino Giugni.
Gli accordi di questo 2009 rischiano però di nascere già obsoleti non solo perchè, alla velocità del cambiamento del ventunesimo secolo, dieci anni sono un’eternità ma perchè gli accadimenti in corso ci stanno ponendo di fronte a fatti fino a ieri inimmaginabili e ad interrogativi assolutamente inediti che richiedono risposte che vanno assai oltre i contenuti dell’Accordo del 22 gennaio e successivi.
Non sarà l’arrivo più o meno prossimo dell’auspicata ripresa a ri-normalizzare la situazione semplicemente chiudendosi una parentesi; non si tratta di stringere le cinture ed attendere la fine della turbolenza, o meglio della tempesta. Niente sarà come prima; ce lo dicono gli economisti e i sociologi ma soprattutto ce lo dicono i fatti .
Allora, per tornare alla domanda iniziale, la mia personale risposta è che l’accordo del 22 gennaio è l’ultimo del “mondo pre crisi” ma, chiudendo una fase, consente di aprire lo spazio al confronto sulle questioni che il “mondo post crisi” ci porrà inevitabilmente, anzi già ci pone seppur in modo non ancora chiaramente identificato.
Oggi le organizzazioni sindacali –quelle dei lavoratori ma anche quelle datoriali- non possono non interrogarsi circa le innovazioni, anche nel campo delle relazioni di lavoro, che saranno necessarie per rispondere al meglio ad una realtà in trasformazione, in cui è in atto una profonda riallocazione della capacità produttiva (e delle risorse) su scala mondiale, in cui il crollo della domanda nei Paesi occidentali ha rivelato la fragilità del modello trainato dalla finanza, in cui si manifesta una nuova centralità dell’industria che comporta ristrutturazioni e riconversioni degli assetti produttivi non prive di conseguenze occupazionali e sociali, in cui si ripensano modelli di welfare e ruolo degli attori istituzionali, in cui si pone il tema della distribuzione del reddito in via principale tra percettori di rendita e creatori di ricchezza e, in via secondaria, tra reddito d’impresa e di lavoro con strumenti che non siano quelli antichi dei rapporti di forza.
Certo, per venire alle cose di tutti i giorni, in questo quadro, di fronte alla domanda di innovazione e modernizzazione che ne deriva, c’è un evidente elemento di difficoltà a procedere e questo è costituito dalla CGIL che non è solo il sindacato più rappresentativo ma è anche il principale punto di snodo, talvolta non solo sindacale, di ogni innovazione sostanziale nel mondo del lavoro e delle relazioni sociali. A scanso di equivoci, non intendo dire che la CGIL è il luogo dell’innovazione, anzi, ma che l’innovazione fatica tremendamente a divenire pratica reale e sostanziale fintantoché la CGIL non è in grado di metabolizzarla.
E’ stato così in tanti passaggi della storia delle relazioni sindacali e contrattuali, dalla contrattazione aziendale alla scala mobile o, per stare ad un tema più caldo ed attuale, la bilateralità che al momento è, comunque la si voglia chiamare, ampiamente praticata almeno nei campi della previdenza complementare che gestisce il TFR e il risparmio contrattuale dei lavoratori, della formazione con l’attivazione dei fondi interprofessionali, della sanità integrativa che è sempre più oggetto di accordi nazionali ed aziendali. E’ stato così in passato ed è così oggi, forse per motivi diversi ma con risultati analoghi; certo, potrebbe non essere più così in futuro.
Se questo è il quadro, ponendomi dall’angolo di visuale che mi è proprio, quello della rappresentanza delle imprese, credo che anche il mondo imprenditoriale sia di fronte a scelte non facili, non di semplice continuità, rispetto al come gestire questa difficile fase, per evitare ritorni indietro ma soprattutto per affrontare con capacità prospettica il futuro. Questioni che hanno bisogno di una riflessione ampia ed attenta ma che non si possono rinviare a tempi migliori “perché c’è altro a cui pensare”.
Quindi, nel riflettere sul sindacato di domani, credo che sia per me innanzi tutto doveroso riferirmi a quello datoriale; anche per non dettare sempre l’agenda degli altri ma provando a ragionare sulla propria.
Dunque: quali le questioni che si pongono alla rappresentanza d’impresa. Credo che come sistema imprenditoriale siamo chiamati a dare risposte almeno alle seguenti questioni, poste in ordine di urgenza ma tutte attuali.
Cosa fare nei prossimi rinnovi contrattuali per evitare di produrre accordi che pur di essere condivisi anche dalla CGIL rischiano di essere pallidi prodotti della riforma contrattuale proprio sulle questioni di maggior significato a cominciare dal salario o, al contrario, con la non condivisione della CGIL, di aprire una fase di vischiosità gestionale ancor prima che di conflitto in una situazione di estrema difficoltà per le imprese.
Quale scelta sostanziale assumere di fronte al tema della flexsecurity che oggi si traduce, in buona sostanza, in revisione degli strumenti di gestione del mercato del lavoro e delle regole del contratto individuale con il sacrosanto obiettivo di conciliare al meglio le esigenze di economicità di gestione e competitività delle imprese con la tutela del reddito e dell’occupabilità dei lavoratori.
Come compiere un passo avanti e con quali strumenti nel superamento della novecentesca contrapposizione tra capitale e lavoro nel momento in cui l’organizzazione economica e sociale dell’Occidente (il capitalismo) ci annuncia grandi cambiamenti e una realtà nuova e diversa da quella vissuta in quest’ultimo cinquantennio; non è un caso se una parte importante del riassetto del settore automobilistico mondiale si sta giocando sul rapporto dell’impresa con il lavoro e le sue organizzazioni rappresentative, da un lato, e su un ruolo della politica che non si limita ad essere semplicemente regolatorio, dall’altro.
Tutte questioni che trascendono la vicenda degli assetti contrattuali ma che si pongono qui ed ora e attendono risposte dagli attori sociali ancor prima che da quelli politici. Ma se le parti sociali non saranno in grado di produrre innovazione vera nei loro rapporti, la sede del confronto e delle decisioni sarà altra da quella sindacale.
Non è un caso che in questo momento sono all’attenzione del Parlamento proposte di legge, dal connotato bipartisan, sul contratto unico di lavoro e sulla partecipazione dei lavoratori alle decisioni e agli utili di impresa; questioni che fino ad ora sono state oggetto di dibattito per addetti ai lavori. Al di là del giudizio di merito che se ne può dare, non c’è dubbio che queste questioni costituiranno larga parte del terreno di confronto che si sta aprendo e che agiscono quasi in presa diretta con le novità che lo scenario economico e sociale ci va proponendo.
Ecco, per concludere con una risposta al tema generale posto da Il Diario del Lavoro, io credo che un sindacato, di entrambe le parti, che non si porrà all’altezza di queste questioni è destinato a non avere futuro.
(Tutto il dibattito sul Sindacato di Domani nella rubrica Opinioni)