Un salario minimo garantito, per legge, che protegga – all’ombra dei carabinieri e degli ispettori dell’Inps – i lavoratori più deboli è un’idea serissima. Sfortunatamente, anche assai complessa e difficile da maneggiare: c’entrano il ruolo dei contratti collettivi, la definizione delle rappresentanze sindacali e, in generale, dovunque il salario minimo esista, il dibattito sulla sua introduzione è appena più acceso di quello che, sistematicamente, ogni volta si apre sull’aggiustamento del suo livello. Ma, saltando la complessità e riducendolo ai suoi termini più semplici (soldi per i poveri), si fa facile demagogia, con il beneficio aggiunto di rosicchiare qualche punto negli equilibri fra le grandi forze sociali. Il primo a (ri)lanciare il salario minimo è stato, infatti, Renzi, quando il suo Pd era impegnato a scavare la terra sotto i piedi delle grandi organizzazioni di intermediazione sociale, come i sindacati. Con lo stesso obiettivo, lo hanno ripreso i 5Stelle e, probabilmente, ne faranno un tema di propaganda nei prossimi mesi.
Ci sono, però, dei numeri che consentono di mettere dei paletti al dibattito, prima che scivoli dentro il frullatore di una campagna elettorale. Riguardano il salario minimo europeo, il salario minimo nazionale, il salario minimo locale. Eccoli.
IL SALARIO MINIMO EUROPEO È UNA BUFALA. Ne hanno parlato il presidente francese, Macron e, a ruota, il presidente del Consiglio italiano, Conte. Il secondo, probabilmente, per sentito dire. Il primo, certamente, per difendere, più che i lavoratori deboli dell’Est Europa, i lavoratori francesi dalla concorrenza proprio di quei colleghi est europei. Ma, mentre è possibile studiare forme di contrasto al dumping retributivo (soprattutto sotto il profilo di regole e norme), un salario minimo comune è una ipotesi scritta sull’acqua. Le differenze sono abissali. Partiamo dai salari orari, un parametro più realistico, visto che, in questo comparto del mondo del lavoro, è più facile pensare a contratti precari e a scadenza. Nell’Europa dell’Est il salario minimo garantito, nei paesi in cui esiste, equivale, al lordo delle tasse, a 2,22-2,77 euro l’ora. In Spagna è quasi il doppio, 4,7 euro. In Francia e Germania quasi il quadruplo: 8,3 euro l’ora. La forbice non è creata dalle leggi, ma rispecchia la situazione reale delle buste paga. Il salario medio effettivo in Bulgaria è 2,26 euro l’ora, in Danimarca (sempre al lordo delle tasse) più di 21 euro. Anche parlare di convergenza è una forzatura.
IL SALARIO MINIMO NAZIONALE È UNA CHIMERA. O, almeno, è una chimera la cifra avanzata nella proposta di legge dei 5Stelle, dove il salario minimo italiano risulterebbe superiore a quello francese e tedesco. Sarebbero, infatti, 9 euro l’ora, contro gli 8,3 di Francia e Germania (il Pd di Renzi aveva fatto peggio, proponendo 9 euro, ma al netto delle tasse). Il confronto, tuttavia, può essere fatto anche su basi più solide.
Il problema di ogni minimo garantito è di assicurare un miglioramento al lavoratore, senza spingere l’imprenditore a tagliare il posto o le ore di lavoro. Secondo gli studi dell’Ocse, questo equilibrio prevede un minimo compreso nella forchetta fra il 40 e il 60 per cento del salario mediano dell’area di riferimento. Oltre il 60 per cento, l’aumento del costo del lavoro può deprimere l’occupazione, sotto il 40, l’imprenditore può essere spinto ad abbassare i salari che già paga. E’ la forbice in cui si trovano i nostri maggiori concorrenti europei: al 40 per cento del salario mediano nazionale la Spagna, vicini al 60 per cento del proprio salario mediano Francia e Germania. Con 9 euro l’ora, l’Italia arriverebbe ad una quota insostenibile – secondo l’Ocse – del 75-80 per cento. Per stare nella forbice Ocse, il minimo legale dovrebbe stare fra i 5 e i 7 euro l’ora. Nell’ipotesi di un contratto pieno a 40 ore settimanali, il parametro Ocse vuol dire una retribuzione mensile (lorda) fra i 900 e i 1.260 euro.
(Attenzione. Non stiamo parlando del salario medio, ovvero di quello che, in media, c’è nella busta paga di un lavoratore italiano, circa 14 euro l’ora. I tecnici preferiscono riferirsi al salario mediano, ovvero quello che sta esattamente a metà della scala retributiva e fornisce una geografia della mappa retributiva più utile a valutare gli effetti di un minimo legale sulle interazioni della politica salariale. Il salario mediano italiano è di poco superiore a 11 euro l’ora)
GABBIE SALARIALI O NO? Un dibattito franco, dentro il movimento sindacale, sulle differenze salariali fra regioni, in rapporto alle differenze del costo della vita, non c’è da decenni. Ma l’introduzione del reddito di cittadinanza ha permesse di toccare con mano le sperequazioni che possono crearsi. I 780 euro del RdC si confrontano con soglie di povertà assai diverse: nelle campagne del Sud, si è poveri con meno di 546 euro al mese. Quindi, prenderanno i 780 euro anche molti che poveri, tecnicamente, non sono. Nelle grandi città del Nord si è statisticamente poveri con un reddito che supera gli 820 euro al mese. Quindi non prenderà nulla anche chi, in realtà, è povero. Le differenze possono essere massicce: l’Istat ha calcolato che una famiglia che vive nelle grandi aree metropolitane può arrivare a spendere 500 euro al mese in più di una famiglia che vive in un Comune con meno di 50 mila abitanti.
Un minimo legale unico a livello nazionale può far esplodere questo squilibrio con pesanti ripercussioni sull’occupazione. Il 60 per cento del salario mediano, cioè il parametro più alto suggerito dall’Ocse, corrisponde a 6 euro l’ora nelle zone più deboli della Campania, della Calabria, delle Puglie. A 7,5 euro l’ora in Brianza e in Emilia. Un minimo legale nazionale di 7 euro significherebbe, dunque, una tosatura dei salari in queste zone del Nord (soprattutto nei rinnovi dei contratti a tempo determinato) e, invece, una decimazione di posti di lavoro nelle aree deboli del Sud. Insomma, terreno minato: avanzare con prudenza.
Maurizio Ricci