In un’Europa ideale – cioè un’Europa in cui a Christine Lagarde non verrebbe neanche in mente di dire che lo spread italiano non è affare della Bce – l’emergenza coronavirus sarebbe stata affrontata con un coordinamento da Bruxelles, non solo in materia sanitaria (tipo le forniture di mascherine da un paese all’altro), ma anche in chiave economica.
Ursula von Leyen, a nome della Commissione, sarebbe andata davanti ai microfoni ad annunciare lo sblocco di finanziamenti immediati, misure di garanzie dei debiti delle imprese come quelle, in effetti, appena varate da Berlino per le aziende tedesche, un programma di sgravi fiscali e di significativi investimenti pubblici per avviare la ripresa. Il tutto finanziato come, visto che sul bilancio europeo i 27 governi non finiscono mai di litigare? Con una massiccia emissione di Eurobond, titoli pubblici a futuro debito dell’Europa nel suo insieme.
Non abbiamo avuto – e non avremo – niente del genere. Niente Eurobond. Darebbero alla Commissione un margine di manovra in politica economica, che oggi non ha. Fornirebbero un solido sostegno per appianare e superare le crisi della moneta unica. Rappresenterebbero, in chiave di finanza globale, un utile alternativa ai titoli del Tesoro americano, anche in prospettiva di una maggiore indipendenza europea dal dollaro. Ma anche questa occasione è andata perduta. Intendiamoci: politiche di tamponamento dell’emergenza e di stimolo alla ripresa ci saranno, comunque, in tutta Europa. Ma varate, in ordine sparso, paese per paese.
Dunque, secondo singola disponibilità: i paesi con tasche più profonde (tipo Germania e Olanda) con generosità, quelli più affannati (Italia, Spagna, Francia) per quello che possono. Il risultato sarà che, nel dopo crisi, il divario fra l’Europa forte e l’Europa debole sarà più profondo di quello di adesso. Il coronavirus ci regalerà un’Unione ancora più traballante.
Non, però, uguale a quella che ha attraversato – male – la lunga crisi finanziaria che ha segnato gli anni fra il 2009 e il 2015. Decenni di politica comunitaria ci hanno insegnato che la Ue avanza così: con un passo da gambero ubriaco. Due passi avanti, uno indietro, molti di lato, spesso per la tangente. Oggi, possiamo registrare che il mantra dell’austerità – la logica “prima saldiamo i debiti” alla tedesca – è alle spalle. Il Patto di stabilità resta in piedi, ma l’impegno è di accantonarlo e la promessa – nuova – è di lasciare i margini per fare ciò che è necessario. Anche dalla Bce viene una promessa analoga.
Capiremo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi se lo scivolone di Lagarde sullo spread è solo una goffa risposta ad una domanda insidiosa o se nasconde una diversa sensibilità nel dopo Draghi.
Intanto, però, la gaffe del neopresidente della Bce ha oscurato le misure importanti, varate, invece, da Francoforte, per tamponare il rischio che l’emergenza strangoli le banche e queste asfissino le imprese. Non c’è stato un taglio del tasso di interesse, misura, peraltro, assai discussa, visto che il tasso è già negativo. Ma arriverà liquidità in misure ingente alle banche, a prezzi stracciati. Anzi, di fatto, sussidiati: un incentivo agli istituti a chiederle. E’ un gioco di tassi negativi. Le banche, quando depositano le loro riserve a Francoforte, versano ogni 100 euro una penale di 5 centesimi (è il tasso negativo meno 0,5 per cento). Ma se li riprendono per prestarli alle aziende, in particolare medie e piccole, non solo non pagano i 5 centesimi, ma la Bce gliene dà, di tasca sua 7,5 (su questi prestiti straordinari c’è, infatti, un tasso negativo delo 0,75 per cento). Contemporaneamente, le autorità di sorveglianza hanno allentato la presa sui bilanci delle banche, alleggerendo il cuscino di riserve obbligatorie a fronte delle sofferenze.
Le novità più importanti, tuttavia, riguardano proprio gli spread. Dopo la gaffe della Lagarde, varie voci dall’interno della Bce si sono affannate a indicare gli strumenti concretamente messi in serbo per bloccare una speculazione dei mercati contro i debiti pubblici, a cominciare da quello italiano. Due i punti chiave di una nuova flessibilità di intervento. Il primo riguarda volumi e tempi. Le munizioni per il Quantitative easing, ovvero per gli acquisti di titoli sul mercato, sono state portate da 200 a 320 miliardi di euro per il 2020. Ma questi 120 miliardi di euro in più non devono essere spesi, a rate, mese per mese, come gli altri 200. Francoforte potrebbe buttare questo tesoro nel piatto tutto in una volta, una valanga di soldi per fermare la speculazione. Dopo tempi e modalità, l’oggetto degli interventi. Non esiste un tetto, per cui la Bce non può destinare, ad esempio al debito italiano, una quota di interventi superiore alla quota dell’Italia nel capitale della stessa Bce (il 17 per cento, di fatto la quota di Pil europeo attribuibile all’Italia)? L’ostacolo è aggirato, con una scappatoia tipica delle tecnocrazie europee. Il tetto c’è, ma bisognerà rientrarci a fine programma, cioè quando il Quantitative easing verrà smantellato. E quando avverrà? Quando sarà possibile. Per ora, il programma va avanti a tempo indefinito e il tetto non conta.
Gli strumenti per intervenire a bloccare una deriva dello spread, insomma, ci sono. Del resto, una difficoltà italiana nel gestire il suo debito, oggi, non sarebbe il risultato di meccanismi di spesa permanentemente fuori controllo, ma di una emergenza eccezionale e temporanea, da cui si rientrerà quando l’epidemia si sarà spenta. La Bce, insomma, interverrebbe non per salvare un governo con le tasche bucate, ma per bloccare una speculazione ingiustificata. L’esperienza insegna che basterà annunciare l’intervento per rimettere in riga i mercati, senza tirar fuori un euro. Il dubbio che ha lasciato la gaffe della Lagarde è se la Bce avrà poi il coraggio – politico, non gestionale – di metter mano agli strumenti che ha approntato.
Maurizio Ricci