Tre quarti di secolo fa, una guerra immane distrusse l’Europa. Per rimettere in piedi 17 paesi del continente, fu necessario un megapiano di aiuti, il Piano Marshall: 150 miliardi di dollari, in soldi attuali, per il 90 per cento a fondo perduto. Ora, 75 anni dopo, un’altra guerra sta devastando un paese europeo. L’invasione russa sta distruggendo infrastrutture per centinaia di miliardi di dollari, ha bloccato linee vitali di esportazione di cibo nel Mar Nero, cacciato dalle loro case 12 milioni di ucraini. Solo quest’anno, il Pil ucraino crollerà del 45 per cento, secondo la World Bank (quello russo intorno al 15 per cento, ma questo è un problema di Putin). Il paese è in ginocchio: quanto costerà ricostruirlo e chi aiuterà gli ucraini a farlo?
La domanda è, in parte, prematura. Se la guerra la vince Putin, inglobando l’Ucraina, se la dovrà vedere lui. In tutte le altre ipotesi, però (dalla sconfitta russa alle possibilità intermedie: un cessate il fuoco sulle posizioni attuali, una Ucraina solo in parte indipendente eccetera) il problema del dopo è già sul tavolo.
Il presidente Zelensky ha dichiarato che la guerra ha distrutto 1.500 scuole, 350 fra ambulatori e ospedali, oltre 2 mila chilometri di strade e 300 ponti, investendo, in totale, più di 32 mila chilometri quadrati di territorio. I calcoli degli economisti della Kyiv School of Economics arrivano a danni per 4,5 miliardi di dollari in più ogni settimana. Yuri Gorodnichenko, un economista ucraino che insegna in America, all’università di Berkeley, valuta che solo ricostruire ponti ed edifici distrutti comporti un investimento di 100-200 miliardi di dollari. Se si ragiona sulla scala dei danni riportati in Iraq o in Afganistan, applicare gli stessi parametri all’Ucraina fa oscillare il conto dei danni fra i 500 e i mille miliardi di dollari.
Dunque, chi paga? Saddam Hussein versò riparazioni per 50 miliardi di dollari al Kuwait per l’invasione e la prima Guerra del Golfo. Ad occhio pare difficile pensare ad una situazione in cui il Cremlino accetti di accollarsi, almeno in parte, i danni. I soldi, peraltro, potrebbe vederli uscire lo stesso, se l’Occidente si decidesse a riversare sulla ricostruzione dell’Ucraina gli oltre 300 miliardi di dollari di fondi russi congelati, per via delle sanzioni, nelle banche americane ed europee. Ma è per prima la ministra del Tesoro americana, Janet Yellen, ad interrogarsi sulla legalità di questo sequestro. Anche se, nel caso dell’Afghanistan, nessuno ha alzato un sopracciglio quando i fondi di Kabul sono stati negati al nuovo governo dei talebani.
Finora, l’Europa ha impegnato 9 miliardi di euro (peraltro come prestiti) per aiuti a Kiev e Washington 40 miliardi di dollari. Probabilmente, queste cifre dovranno essere moltiplicate più volte per essere all’altezza del problema. Qualche economista ipotizza di applicare alla ricostruzione dell’Ucraina lo schema del NextgenEU, il grande piano di rilancio postpandemico: in quel caso, i paesi della Ue hanno accettato di indebitarsi tutti insieme sui mercati per 750 miliardi di euro. Finirà così? Non serve una sfera di cristallo per immaginare le polemiche, gli scontri, le discussioni che accompagneranno il percorso di qualsiasi ipotetico piano Marshall per l’Ucraina.
Tuttavia, proprio l’esperienza storica del piano Marshall insegna che questi grandi gesti di solidarietà non sono davvero a fondo perduto. E’ antipatico dirlo, ma, agli occhi degli economisti, cinici per definizione, le guerre, nonostante il loro tragico carico di lutti e distruzioni, sono anche delle grandi occasioni di cambiamento e rinascita.
Lo fu per l’Europa, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale. Può essere la leva anche per una modernizzazione dell’Ucraina, rimasta, dopo il crollo del sistema sovietico, una economia inefficiente e arretrata, legata a doppio filo alla dipendenza energetica dal petrolio e dal gas russo, nonostante risorse nazionali lasciate, non per caso, inutilizzate. Se vogliamo prendere come parametro proprio l’energia – un classico indicatore di efficienza – la quantità di energia che l’economia ucraina utilizza per produrre una unità di Pil è fra le più alte del mondo.
Le ricostruzioni postbelliche sono, però, anche delle grandi occasioni di investimento. Il Piano Marshall fu un grande gesto di solidarietà, con un evidente tornaconto politico, ma, per l’industria americana fu la possibilità di destinare ad un fiume di esportazioni risorse produttive che la guerra aveva lasciato intatte. Quei mille miliardi di dollari, fa notare, insomma, il cinico economista, tornerebbero in gran parte nelle tasche di aziende europee ed americane.
Peraltro, la stessa Ucraina ha risorse da offrire. Per stare nell’attualità, il metano, ad esempio. Solo la Norvegia, il paese europeo con la maggiore produzione di gas, ha, probabilmente, riserve di metano superiori a quelle dell’Ucraina. Quelle accertate sono circa mille miliardi di metri cubi (l’equivalente di 2-3 anni di consumi totali europei), ma alcune valutazioni arrivano a 5 mila miliardi di metri cubi, non lontano dalle riserve degli Stati Uniti. Il Cremlino e Gazprom non avevano alcun interesse a lasciare che Kiev sfruttasse queste risorse, rimaste intatte. Ma l’Ucraina ha riserve importanti anche dei minerali del futuro, quelli della terza rivoluzione industriale e dello sviluppo ecologico: il litio e il cobalto per le batterie, le terre rare per l’informatica, il nickel, il titanio per gli aerei, il germanio per le fibre ottiche, il gallio per i circuiti digitali.
Ecco perché, per capire meglio quello che sta avvenendo in queste settimane in Ucraina, anche l’occhio dell’economista aiuta. Putin ha concentrato gran parte dello sforzo bellico nel disegno di annettere il Donbass e gran parte di quelle risorse sono appunto nell’Est dell’Ucraina. Raramente i sogni imperiali sono solo bandiere e sentimenti dettati dalla storia.
Maurizio Ricci