Diciamolo una volta per tutte, smentendo una serie interminabile di cliché e di rappresentazioni di maniera. Non siamo un paese di operai lavativi, soffocato da torme di mezzemaniche al soldo dello Stato, dove nessuno tira fuori soldi per investire. Il ritratto dell’Italia, che l’Ocse (l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati) ha appena consegnato al dibattito fa chiarezza su punti al centro di annose polemiche. E, dunque. Gli operai italiani lavorano e sono produttivi, più di molti colleghi esteri. I loro padroni non sono perennemente impegnati a imboscare profitti all’estero, ma li impiegano nelle aziende. Gli statali italiani sono relativamente pochi, rispetto agli esempi stranieri.
E, allora, com’è che il paese è fermo da trent’anni in un ristagno senza fine, con un pil pro capite che invece di andare avanti, va indietro? Rispetto al 2000, già nel 2006-2007 (un periodo di espansione in Italia) la quota dell’economia che ognuno di noi si poteva intestare aveva messo insieme un magro aumento del 5 per cento. La media, in Europa, era il 15 per cento e la Francia marciava a ritmo doppio rispetto a noi. Da allora, è andata sempre peggio, il pil pro capite (al netto dell’inflazione) in Italia è scivolato sotto zero, ogni anno ne abbiamo messo insieme sempre meno, mentre altrove sistematicamente aumentava. Prima della pandemia, il pil pro capite dei cittadini della Ue era cresciuto del 25 per cento, rispetto al 2000 e, anche a non voler considerare gli exploit dei paesi dell’Est, francesi e spagnoli erano più ricchi del 15 per cento. Gli italiani più poveri del 2 per cento.
Con brutale approssimazione, si potrebbe dire che la colpa non è degli operai, ma degli impiegati. E non è degli industriali, ma degli imprenditori del commercio, del turismo, in generale dei servizi. Quella che l’Ocse ci presenta è, infatti, un’Italia drammaticamente spaccata in due. L’Italia investe poco: in media il 16-17 per cento del Pil ogni anno, contro il 22-23 per cento di Francia e Germania. E se scorporiamo gli investimenti pubblici e guardiamo solo quelli privati, la situazione non è molto migliore: gli imprenditori italiani mobilitano appena il 15 per cento del Pil, contro il 19 per cento di francesi e tedeschi. Ma se invece di dividere pubblici e privati, confrontiamo industria e servizi, il quadro cambia. Nell’industria manifatturiera, scontata la lunga crisi finanziaria, gli investimenti, rispetto al 2007, sono cresciuti di quasi il 10 per cento. Nei servizi, invece, in media ogni anno sono circa il 20 per cento in meno del 2007.
Un discorso analogo vale per il contestatissimo capitolo della produttività. Il grafico che l’Ocse dedica alla crescita media annua della produttività fra il 2012 e il 2019 mostra una colonnina quasi impercettibile, lo 0 virgola qualche centesimo, per l’Italia, contro solidi e costanti aumenti annui dell’1 per cento per Francia e Germania. Ma, anche qui, bisogna distinguere. Nell’industria manifatturiera, la crescita media annuale del prodotto pro capite (una misura classica della produttività) fra il 2012 e il 2019 è stata il doppio del periodo 2000-2007: quasi il 2 per cento l’anno, contro l’1 per cento. Negli altri paesi, la produttività nell’industria manifatturiera, rispetto al decennio precedente, è diminuita, non cresciuta ed è limitata all’1 per cento, negli ultimi anni. Nei servizi, è vero il contrario. La produttività, in Italia, è e rimane sotto zero, mentre negli altri paesi, anche fuori dall’industria, cresce e anche con vivacità.
Questo non assolve necessariamente gli industriali. Il fatto che investano non dire che facciano gli investimenti giusti. Per esempio, molto hanno speso in brevetti e software, ma sono assai avari, rispetto ai concorrenti esteri, quando si tratta di allargare le competenze digitali dei loro impiegati, soprattutto nelle aziende con meno di 50 addetti. Più in generale, è il sistema delle imprese che, all’Ocse, appare un po’ ingessato e rigido. Abbiamo poche start-up, nel senso che, in media, nell’Ocse nascono quasi il doppio delle aziende che nascono in Italia. E’ anche un problema di ricambio, di turnover. Perché ne muoiono anche meno, rispetto a quanto avviene negli altri paesi industriali.
L’immagine che esce dai dati dell’Ocse è, insomma, di un sistema vischioso, autoprotettivo, dove l’inefficienza pubblica si tramuta in semimpunità. Normalmente, negli Usa, in Germania, in Francia per far rispettare un contratto occorrono circa 400 giorni. In Italia, annota l’Ocse, siamo oltre 1000, l’equivalente di tre anni. D’altra parte, se un interlocutore fallisce, in Germania o negli Usa un’azienda può aspettarsi di recuperare l’80 per cento dei suoi crediti. In Italia, la media è di poco superiore al 60 per cento. E’ esattamente quello di cui le aziende straniere, quando esitano ad investire in Italia, più si lamentano, assai più dello Statuto dei lavoratori. E, infatti, in un rapporto largamente elogiativo del piano di riforme che l’Italia sta mettendo in campo, l’Ocse riserva il consenso più caloroso ai progetti di riforma della giustizia civile. La strada della ripresa passa obbligatoriamente anche per i tribunali.
Maurizio Ricci