Il populismo è antipopolare? Almeno per il populismo di destra le prove sembrano incontrovertibili e si ripetono da paese a paese. Ecco perché scelte quasi sistematicamente lontane dagli interessi delle classi meno abbienti appaiono come un carattere intrinseco di questo populismo piuttosto che occasionali. Campagne culturali di grande eco e modesta sostanza (si tratti dell’egemonia di Hollywood o della Rai di sinistra) mascherano, fino a nasconderla, l’adesione ad un liberismo radicale che di popolare non ha nulla, anzi ne è il contrario. Una conferma quasi grottesca viene in questi giorni dall’America, dove, in nome della battaglia contro il debito pubblico di uno Stato che sarebbe troppo vorace e ingombrante, la destra repubblicana ha agitato il ricatto della catastrofe finanziaria, pur di limitare i bonus cibo per i poveri e, soprattutto, estorcere la promessa di ridurre le risorse per le indagini del fisco contro i grandi evasori, che alla riduzione del debito pubblico potrebbe, invece, dare un significativo contributo.
Meno welfare, meno tasse. Decenni di egemonia democristiana, all’insegna dell’interclassismo e del solidarismo cattolico, hanno un po’ offuscato in Italia la percezione della linea di frattura che, in tutto il mondo, divide, in modo inequivocabile e facilmente riconoscibile, destra e sinistra. L’ascesa al governo, da settembre, della destra radicale di Meloni e Salvini l’ha fatta emergere con chiarezza: al netto delle diatribe su famiglia, maternità, italianità, patrioti, presidenzialismo, il governo ha agito con rapidità ed efficienza sul versante della distribuzione delle risorse.
I finanziamenti per la sanità, nel 2023, aumenteranno del 3,8 per cento e, nel 2024, del 2,4 per cento. Ma, quest’anno, si stima che l’inflazione sarà del 4,5 per cento e, l’anno prossimo, del 2,6 per cento. Questo vuol dire che, in termini reali, i fondi per la sanità – il punto di maggior crisi del nostro welfare – diminuiscono sia nel 2023 che nel 2024. Il taglio è ancora più evidente per le “prestazioni sociali in denaro” a carico del bilancio pubblico (bonus, sussidi ecc.). Se si escludono le pensioni (regolate da norme molto rigide), i fondi stanziati per le altre prestazioni sociali si riducono del 2,9 per cento nel 2023 e crescono solo dell’1,5 per cento nel 2024: una vistosa decurtazione se si considera l’inflazione del 4,5 per cento di quest’anno e del 2,6 per cento il prossimo.
Contemporaneamente, è difficile fare i conti preventivamente delle sanatorie, ma condoni ed alleggerimenti (la via all’italiana, concreta ma discreta, dei tagli alle tasse) avranno l’effetto di ridurre il carico fiscale, in modo estremamente significativo per le stesse categorie interessate al condono, grazie anche all’aumento da 65 mila a 85 mila della franchigia per la flat tax del lavoro autonomo.
A togliere ogni velo alla manovra – forse ancor più sociale che economica – messa in atto dal governo Meloni provvede un grafico dell’ultima Relazione della Banca d’Italia di Ignazio Visco che, entro fine anno, lascerà la carica e che, al passo d’addio, al governo non ha fatto sconti, né sulla necessità degli immigrati, né sul salario minimo. Ma il grafico sull’evoluzione del reddito disponibile delle famiglie è il più crudo: se ne ricava che, per le fasce più povere, l’impatto di misure sociali strombazzate, come taglio del cuneo fiscale, bonus bollette, assegni per i figli è azzerato dalla tosatura del Reddito di cittadinanza, mentre i benefici delle flat tax si concentrano sui contribuenti più ricchi. Zero per i poveri, bonus per i ricchi: lo slogan di questo populismo è senza equivoci.
Maurizio Ricci