di Lauralba Bellardi, ordinario di Diritto del lavoro alla Facoltà di Scienze politiche, Università di Bari
1. A che cosa serve il sindacato? è un volume che appartiene al genere letterario del pamphlet e che è destinato al pubblico dei comuni lettori, che vengono abilmente condotti dall’A. – attraverso la descrizione di casi aziendali reali e virtuali, mirati a fornire (in modo subliminale) un quadro della nostra realtà sindacale ma, invero, non necessariamente rappresentativi della stessa – a condividere le sue proposte di modifica radicale della funzione del sindacato nelle relazioni industriali e nel sistema sociale.
E tuttavia il volume interessa anche gli addetti ai lavori in quanto, riprendendo il filo del ragionamento avviato nel volume del ’96 Il lavoro e il mercato, Ichino presenta la sua ipotesi di riforma della struttura della contrattazione collettiva e della rappresentanza sindacale, mirata a rimuovere gli ‘ostacoli istituzionali e culturali’ che impediscono un effettivo pluralismo sindacale.
In particolare, infatti, l’A. si propone di neutralizzare l’eventuale dissenso che si manifesta tra i sindacati nella stipulazione dei contratti – che, attualmente e a suo parere, paralizzerebbe la contrattazione collettiva – e di favorire, nella competizione tra modelli alternativi di sindacato e di relazioni industriali, un approccio cooperativo tra le parti sociali, al fine di arginare il declino del nostro sistema economico-produttivo.
I due modelli alternativi ‘estremi’ vengono riassunti nella distinzione tra:
– il sindacato α, che attraverso il conflitto persegue il rafforzamento di meccanismi assicurativi nei rapporti di lavoro (sicurezza del posto, uguaglianza e inderogabilità – individuale e collettiva – dei trattamenti), sacrificando l’efficienza dell’impresa e favorendo il dualismo del mercato del lavoro, in quanto lascia che le sperequazioni si creino al di fuori dell’area protetta (non si tratta di altro se non della riproposizione del noto conflitto tra insiders e outsiders);
– il sindacato ω, il quale persegue politiche a più alto contenuto partecipativo che, nella loro versione integrale, comportano per i lavoratori meno sicurezza, maggiore incentivo alla produttività, maggiori possibilità di guadagno, maggiore coinvolgimento nell’andamento dell’impresa, ma consentono che le maggiori diseguaglianze di trattamento tra i dipendenti di imprese diverse e della stessa impresa si mantengano entro l’area del lavoro regolare.
Si può aggiungere, con una certa approssimazione al suo pensiero, che l’A. riconduce la Cgil al primo tipo di sindacato, mentre ritiene Cisl e Uil molto più vicine al secondo.
In estrema sintesi, il punto centrale del ragionamento di Ichino è rappresentato dalla necessità di spostare il baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia e di introdurre un meccanismo di misurazione della rappresentatività di ciascuna organizzazione sindacale, basato sui consensi ricevuti in periodiche consultazioni (elettorali) dei lavoratori interessati e utilizzabile per individuare a qualunque livello il soggetto sindacale – singola organizzazione o coalizione – che, avendo la maggioranza, è titolare esclusivo del potere di contrattare in piena autonomia, quindi anche in deroga al contratto di livello superiore, e con effetti erga omnes.
Ebbene, anticipando una considerazione critica che mi propongo di argomentare, a me pare che queste proposte siano del tutto contraddittorie con il fine perseguito, perché possono produrre non l’effetto – desiderabile – di rendere la regolazione dei rapporti di lavoro più flessibile e adeguata agli interessi ed alle esigenze delle parti sociali a livello decentrato, sviluppando – oltre a produttività e occupazione – la cooperazione; ma l’effetto – indesiderabile, penso, anche per i datori di lavoro – di moltiplicare livelli, sedi e soggetti contrattuali e, dunque, sistemi e regimi contrattuali, in competizione tra loro, rendendo del tutto evanescente il ruolo del contratto nazionale e delle associazioni nazionali e confederali sia dei lavoratori, sia dei datori di lavoro, sì da generare l’ingovernabilità delle relazioni industriali, senza alcuna contropartita certa in termini di maggiori chances di competitività del sistema economico e di miglioramento quali-quantitativo dell’occupazione.
2. La struttura contrattuale ipotizzata è (solo) formalmente a due livelli. Quanto al contratto nazionale di categoria, l’A. ritiene ‘probabilmente opportuno’ che conservi il proprio ruolo essenziale di rete di protezione universale, ma resti applicabile solo dove non ne sia pattuito uno diverso da una singola organizzazione o coalizione sindacale di livello inferiore, dotata della necessaria rappresentatività nella zona o azienda cui il contratto si riferisce.
In altre parole, il ccnl resterebbe un parametro indicativo di carattere generale e la fonte della disciplina applicabile in assenza di altre fonti più vicine al caso concreto, producendo effetti inderogabili soltanto per le imprese iscritte all’associazione stipulante: un elemento che, con ogni evidenza, intanto induce effetti di ‘fuga’ delle imprese dalle associazioni che stipulano il contratto di categoria e, comunque, indebolisce la consistenza e la funzione di entrambe le parti sociali nazionali.
La conferma che il ruolo del ccnl sia tutt’altro che ‘essenziale’ nella riforma proposta emerge laddove l’A. comunque chiarisce che, a differenza di quanto prevede per i contratti stipulati a tutti gli altri livelli, non gli pare opportuno attribuire (ovviamente per legge) efficacia erga omnes ai contratti di categoria e che è preferibile affidare la determinazione di standard universalmente inderogabili (in attuazione dell’art. 36 Cost.) a un ‘salario minimo’ fissato dal Governo: dal Governo, senza alcun coinvolgimento delle parti sociali e nemmeno, in alternativa, di un organo tecnico e, quindi, neutrale, ovvero di uno trilaterale: come dire che a livello nazionale, cioè al ‘centro’ del sistema, si sottrae al sindacato la sua funzione genetica di determinazione della retribuzione minima. Per non dire, poi, che non è nemmeno accennato l’aspetto cruciale relativo al grado di protezione delle retribuzioni che il salario minimo dovrebbe assicurare, per esempio in relazione all’inflazione.
Questo ‘formidabile attacco al ccnl’ – ancora più intenso di quello contenuto nel Libro Bianco, al quale in realtà era riferita la valutazione di M. Napoli che ho ripreso – si basa anche su una motivazione economica e, cioè, che i minimi determinati dal ccnl generano un costo del lavoro troppo elevato e favoriscono il lavoro nero, soprattutto nel Sud, impedendone lo sviluppo.
L’affermazione, largamente diffusa in ambienti economici neo-liberisti, viene frequentemente ripresa anche da studiosi di diritto del lavoro e di relazioni industriali; ma sarebbe forse il caso di prendere coscienza del fatto che essa si fonda, in realtà, su una valutazione parziale ed, anzi, incompleta dei problemi legati alle dinamiche salariali, come altri autorevoli studiosi di economia cercano con fatica di segnalare, perché il raffronto tra nord e sud deve essere effettuato non solo sui minimi fissati dal ccnl, ma sui salari di fatto.
Al riguardo, numerose rilevazioni e ricerche economiche hanno dimostrato, innanzitutto, che negli anni novanta (e in particolare nell’industria) circa un terzo della crescita delle retribuzioni di fatto è stato determinato da fattori esterni al contratto nazionale, come la contrattazione decentrata e lo slittamento salariale non controllato dai sindacati; in secondo luogo, che esistono ampi differenziali salariali (a parte quelli intersettoriali), come riflesso dei divari territoriali occupazionali e di produttività. D’altra parte, è noto che nel Mezzogiorno sono stati sperimentati anche diversi modi di differenziare le retribuzioni e i trattamenti di lavoro rispetto al ccnl (riducendone i minimi), come i contratti d’area, i patti territoriali, i contratti di riallineamento, ecc.
Non solo, dunque, il costo del lavoro non è identico tra nord e sud (o altre aree territoriali poco sviluppate o in declino), ma soprattutto – come le stesse ricerche economiche hanno pure dimostrato – la crescita dei differenziali retributivi non ha ridotto i divari territoriali essendo mancati – e mancando tuttora – interventi, nonché investimenti, in grado di sviluppare il tessuto produttivo, la qualità ed il contenuto innovativo delle produzioni.
La motivazione economica non appare, dunque, di per sé idonea a giustificare, in termini di necessità, la fine del contratto di categoria, come la mera riduzione del costo del lavoro non appare una ricetta adeguata (surreale, l’ha definita di recente De Biasi in Questa Rivista) a favorire lo sviluppo del Mezzogiorno. Ed anzi, occorrerebbe riconoscere che l’ostinata rimozione, nelle elaborazioni di teoria economica condivise da Ichino, delle considerazioni critiche appena sviluppate, non è immune da apriorismi ideologici che trascurano l’andamento reale dell’economia: il che, paradossalmente, rappresenta proprio il vizio che spesso queste ultime elaborazioni pretendono di rinvenire in quelle da esse avversate.
All’indebolimento del contratto nazionale corrisponde, nella costruzione di Ichino, il rafforzamento della contrattazione decentrata aziendale e territoriale in senso lato (zonale, provinciale, regionale, ecc.), la quale dovrebbe poter liberamente derogare il contratto collettivo di livello superiore, in modo che la disciplina dei rapporti di lavoro sia più adatta a soddisfare le esigenze specifiche e le condizioni locali (ancora, e in particolare, nel Mezzogiorno): ed anche se l’A. specifica che contrattare in deroga significa definire una disciplina di uno o più istituti – né peggiore, né migliore, ma – diversa e alternativa rispetto a quella definita a qualunque altro livello, a cominciare da quello nazionale di categoria (possibilità oggi negata, come sottolinea l’A., da dottrina e giurisprudenza), pare evidente che I. pensi soprattutto alla riduzione dei minimi di trattamento.
In realtà, il lacerante dibattito dottrinale e le contrastanti interpretazioni giurisprudenziali sui rapporti tra contratti collettivi di diverso livello in ordine alla derogabilità in pejus dei contratti nazionali da parte di quelli aziendali è stato superato grazie alle clausole di specializzazione dei livelli contenute nel Protocollo del ‘93 (e, anche, a specifiche previsioni dell’A.I. Confindustria del ’93 sulle rsu), quanto meno nella prassi (perché ampia parte della dottrina e della giurisprudenza non se ne è ancora accorta), considerato che la struttura contrattuale disegnata in quell’accordo non è stata sostanzialmente oggetto di vertenzialità giudiziaria: e ciò significa che, dal punto di vista giuridico, essa ha espresso una grande capacità di governo centralizzato del conflitto.
Il Protocollo contiene, però, anche una clausola che riconosce al livello aziendale ampie potenzialità adattive – oltre che derogatorie – della disciplina contrattuale nazionale. E’ quella che riserva a questo livello la funzione di gestire «gli effetti sociali connessi alle trasformazioni aziendali quali le innovazioni tecnologiche, organizzative e i processi di ristrutturazione che influiscono sulle condizioni di sicurezza, di lavoro e di occupazione, anche in relazione alla legge sulle pari opportunità». Si tratta, infatti, di una previsione estremamente ampia dal punto di vista della tipologia delle attività che vi rientrano (informazione, consultazione, contrattazione); dei contenuti, dai quali non sono esclusi nemmeno quelli che abbiano ricadute economiche e retributive; dei tempi delle stesse, che non sottostanno alla cadenza quadriennale anche quando abbiano natura negoziale.
La negoziazione aziendale delle trasformazioni produttive, in altri termini, avrebbe potuto essere utilizzata da Ichino quale ‘cantiere aperto a sperimentazioni’, tanto più che proprio questa clausola conferma l’obiettivo del Protocollo del ’93 di far sviluppare nel sistema di relazioni industriali una cultura orientata verso contenuti tecnici, gestionali e partecipativi, favorendo l’intervento sindacale, oltre che sui modi e sugli effetti del cambiamento tecnico-organizzativo, sulla stessa efficacia delle strategie aziendali: che, apparentemente, è anche l’obiettivo perseguito dall’A.
Senza dire che per favorire una più estesa flessibilizzazione dei trattamenti, evitando di minare la coerenza del sistema contrattuale vigente, avrebbero potuto essere recuperate le proposte, tuttora attuali, della Commissione per la verifica del Protocollo del ’93, presieduta da Giugni, che già includevano il ricorso alle c.d. clausole di uscita, per consentire di derogare a livello aziendale e/o territoriale la disciplina negoziata a livello nazionale, entro limiti e condizioni – di contenuto e di operatività temporale della deroga stessa, oltre che di materie – definite dallo stesso ccnl. Fondamentale, però, nell’impostazione del Rapporto della Commissione, sarebbe stata la consensualità delle deroghe, verificata e validata dalle stesse organizzazioni firmatarie dai contratti collettivi derogati.
Il fatto è, però, che queste soluzioni non valorizzano, come vorrebbe l’A., il ‘pluralismo’ sindacale, perché esse presuppongono – come fondamento e condizione dell’efficacia del sistema – il ruolo essenziale della contrattazione nazionale e l’identità dei soggetti negoziali ai diversi livelli: e, dunque, l’unità dell’azione contrattuale dei sindacati confederali ed il consenso fra gli stessi, all’esito di processi di mediazione intra- ed interorganizzativa.
3. Questo dei soggetti negoziali è l’altro elemento di ‘rottura’ dell’assetto precedente, come già accennavo. Una nuova disciplina della rappresentatività sindacale ed, eventualmente, della efficacia erga omnes dei contratti appare effettivamente necessaria per favorire la coesione e la tenuta del sistema contrattuale, perché è vero – come dice Ichino – che in materia il nostro ‘diritto vivente’ è costituito da un insieme difettoso e disordinato di regole di fonte legislativa e giurisprudenziale.
Ma la soluzione regolativa che l’A. individua – per correggere il ‘difetto’ del nostro ordinamento intersindacale, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di organizzazioni sindacali e dall’assenza di criteri applicabili in caso di dissenso per stipulare validamente i contratti – non sembra neanche questa volta idonea a perseguire lo scopo dichiarato. Legittimata a contrattare, anche in deroga, e con efficacia erga omnes è l’associazione o la coalizione che disponga della maggioranza dei rappresentanti in azienda o della maggioranza dei consensi espressi in ambito territoriale o categoriale, all’esito di votazioni da svolgersi periodicamente e a suffragio universale in ciascuna unità produttiva su liste e ‘programmi’ presentati dalle singole organizzazioni.
Il soggetto sindacale maggioritario può, dunque, stipulare il contratto anche contro la volontà delle altre organizzazioni: si eliminerebbe, così, il difetto e si consentirebbe ‘al pluralismo di esprimersi’.
Sono del tutto d’accordo con Pezzotta – che I. cita – quando dichiara di essere contrario ad un sistema che assegni la rappresentanza monopolistica alla cd. coalizione vincente, perché questo sì determinerebbe l’annullamento del pluralismo sindacale, il quale può e deve funzionare attraverso mediazioni. Né vale a negare il carattere monopolistico della rappresentanza – negoziale – vincente la garanzia per tutti i sindacati, anche per quelli minoritari, della conservazione di spazi di agibilità associativa in proporzione ai voti raccolti: ad essi – dichiara l’A. – sarebbe negata solo la prerogativa di contrattare con pieni poteri in nome e per conto della generalità dei lavoratori. Il fatto è che non c’è rappresentanza senza accesso effettivo e formale alla contrattazione collettiva.
Per altro verso, favorire gli accordi separati – considerati, prima del Libro Bianco e della legge delega n. 30, una patologia del sistema – significa indurre l’esplosione di conflitti competitivi tra i sindacati, così come consentire la stipulazione – per esempio, nella stessa categoria – dei singoli contratti decentrati (aziendali, territoriali e così via) da parte di sindacati o coalizioni volta a volta diverse, a seconda dell’esito delle consultazioni, significa far emergere e coesistere più sistemi e regimi contrattuali. Oltre a far perdere al contratto collettivo la sua effettività, tutto ciò determinerebbe l’aumento esponenziale del conflitto, e non della partecipazione, la frammentazione della contrattazione collettiva e del potere contrattuale del sindacato e, in definitiva, un drastico ridimensionamento dell’autonomia collettiva.
Peraltro, molto poco convincente è anche la scelta dell’A. di evitare nel settore privato, in relazione all’abrogazione dell’art. 26 St. lav., la ‘complicazione’ della duplicità dei criteri di misurazione della rappresentatività – iscritti e voti ricevuti nell’elezione delle rsu – attualmente previsti per le Pubbliche Amministrazioni dalla legge. In realtà, va ricordato che la riscossione dei contributi sindacali su delega al datore di lavoro è comunque disciplinata, nel settore privato, dai contratti di categoria e che la mera rilevazione del numero delle deleghe ai datori di lavoro, oltre che consentire un calcolo più corretto della effettiva rappresentatività, valorizzerebbe le scelte e la posizione delle imprese che operano correttamente nel sistema di relazioni industriali.
Questa soluzione, tra l’altro, non favorirebbe i fenomeni – paventati da Ichino – di incontrollabile ‘gonfiamento’ degli iscritti da parte di sindacati di minima consistenza o non genuini, ai quali le stesse imprese non abbiano dato riconoscimento a fini contrattuali, e non implicherebbe alcun controllo pubblico intrusivo e lesivo dell’autonomia sindacale.
Infine, non convince nemmeno, e non solo perché frutto di valutazioni soggettive, la motivazione (di politica sindacale) addotta a sostegno della scelta di utilizzare solo il criterio elettorale, escludendo quello degli iscritti: il fatto, cioè, che potrebbe più agevolmente prevalere un sindacato che abbia meno iscritti e più consensi elettorali sulla propria politica rivendicativa, rispetto al sindacato che abbia più iscritti, ‘ma sia incapace di aggiornare le proprie linee di azione in relazione agli interessi effettivi della maggioranza della categoria’. L’A. pensa – come si deduce dal contesto – di poter sostenere così la diffusione di politiche contrattuali di tipo cooperativo (ad opera di sindacati, come Cisl e Uil, con meno iscritti rispetto alla Cgil).
In proposito, il profilo critico più rilevante è quello – per così dire – della ‘tenuta’ democratica del metodo. Ma I. non si è probabilmente reso conto nemmeno del fatto che il sistema potrebbe funzionare in modo del tutto opposto rispetto alle sue attese, perché potrebbe risultare premiata in termini di consensi e, così, legittimata alla contrattazione una qualunque rappresentanza di base di minima o nulla consistenza, che si presentasse ai suoi potenziali elettori con un ‘programma’ rivendicativo radicale e, perciò, tanto attraente quanto inattuabile, perché del tutto inaccettabile per la controparte, innescando conflitti senza uscita.
Entrando nel merito di altri contenuti della progettata disciplina sulla rappresentatività, va sottolineato che essa consente di partecipare alle consultazioni elettorali a qualunque organizzazione sindacale, senza alcuna limitazione. Una regola ampiamente distonica rispetto a quella introdotta nell’A.I. del ’93 sulle rsu stipulato da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil nel quale, proprio per evitare un’indiscriminata frammentazione sindacale e, soprattutto, per combattere il frazionamento opportunistico in caso di dissensi interni ad un sindacato, la partecipazione alle elezioni è limitata alle organizzazioni sindacali formalmente costituite in associazioni con proprio statuto ed atto costitutivo, che aderiscano al Protocollo ed all’A.I. del ‘93 e la cui lista sia corredata di un numero di firme di lavoratori pari al 5% degli aventi diritto al voto.
Nel progetto, inoltre, requisito minimo per stipulare un contratto in deroga è che la coalizione negoziale maggioritaria comprenda una organizzazione sindacale rappresentata in aziende dislocate in almeno 3 regioni diverse, per garantire – precisa l’A. – che l’organismo da costituire nei luoghi di lavoro non sia distinto e autonomo dalle organizzazioni sindacali esterne, ma abbia un rapporto organico con queste, come già prevede l’art. 19 St. lav. Si stenta veramente, però, a cogliere il rilievo effettivo di questa previsione, visto che le organizzazioni ‘esterne’ non sarebbero più quelle dotate di una rappresentatività di ambito confederale o categoriale, com’era nelle versione pre-referendum dell’art. 19, né quelle già riconosciute dalla controparte a fini negoziali, anche a livello meramente aziendale, com’è nella versione post referendum (già non molto ‘saggia’) dell’art. 19, ma quelle presenti, magari con un solo rappresentante, in aziende dislocate in 3 regioni. Ed emerge così chiaramente la prospettiva della polverizzazione (non solo della titolarità negoziale, ma) delle organizzazioni sindacali che il progetto in commento presuppone e favorisce. Ma non solo.
L’ambito nel quale può essere valutata la rappresentatività delle organizzazioni alle quali il progetto delega potere normativo è anche quello meramente territoriale. Al di la’ della indeterminatezza del concetto di territorio, che potrebbe persino favorire «estrose operazioni» volte a ritagliare l’area di applicazione del contratto collettivo su quella della rappresentatività di un sindacato, questo elemento conferma l’intento di consentire in generale la legittimazione di sindacati presenti solo in alcune aziende o zone del Paese e che, dunque, non hanno la ponderata considerazione e capacità di tutela dell’interesse collettivo tipica del sindacalismo confederale – e persino, in alcuni casi, categoriale – storico.
E passiamo al profilo della fonte della nuova disciplina. Ove prevalgano posizioni sindacali contrarie ad un intervento legislativo, essa è affidata dall’A. ad accordi quadro – preparatori (cioè sperimentali) o sostitutivi della riforma legislativa in materia – da stipulare a livello interconfederale, di settore, regionale e (persino) aziendale tra confederazioni maggiori (anche a livello aziendale?) e ogni altra associazione disponibile con un imprenditore o un’associazione. In tali accordi le parti dovrebbero prevedere espressamente la derogabilità del contratto collettivo di livello superiore ad opera di qualunque contratto di livello inferiore, se stipulato da una organizzazione o coalizione sindacale maggioritaria, e la sua efficacia erga omnes. Con effetti devastanti – in termini di coacervo e di confusione di regole – sulla stessa possibilità teorica di parlare di ‘sistema’ o di ordinamento intersindacale.
Se, al contrario, si superano le ostilità sindacali, l’A. suggerisce il ricorso all’intervento legislativo e, più specificamente, ad una legge delega: così, se la nuova disciplina mira a neutralizzare il dissenso tra sindacati nella stipulazione dei contratti, lo strumento regolativo utilizzato consentirebbe, in fase di attuazione della delega, di neutralizzare anche il dissenso della minoranza parlamentare.
Ove, come l’A. ritiene, l’intervento legislativo dovesse prevedere l’efficacia erga omnes dei contratti stipulati, si dovrebbe abrogare o modificare l’art. 39 Cost., per sostituire il criterio di rappresentatività basato sugli iscritti con il criterio dei consensi periodicamente rilevati. Potrebbe essere fatto salvo, nella seconda ipotesi, ‘il principio fondamentale introdotto dal legislatore: il principio, cioè, dell’attribuzione del potere di stipulare contratti collettivi con efficacia generale soltanto alle associazioni sindacali o loro coalizioni effettivamente rappresentative della maggioranza dei lavoratori interessati’: e questa mi pare una lettura davvero distorsiva dell’art. 39, quarto comma, il quale in realtà riconosce la legittimazione a stipulare contratti collettivi con efficacia generale ai sindacati registrati, ‘rappresentati unitariamente in proporzione dei propri iscritti’ [corsivo mio].
4. In definitiva, le ipotesi di riforma proposte dall’A. inducono un decentramento disorganizzato della contrattazione collettiva, con la moltiplicazione di soggetti, di livelli e di discipline contrattuali in competizione reciproca al ribasso, in funzione di una flessibilizzazione su base aziendale e territoriale dei trattamenti, così da frantumare la funzione normativa dei contratti collettivi, i sindacati e il loro ruolo nelle relazioni industriali e nel sistema sociale.
Concludo con qualche ulteriore osservazione, che mi pare particolarmente rilevante.
In primo luogo, un sistema contrattuale del tutto scoordinato non è rivendicato dagli stessi datori di lavoro, come dimostrano già l’A.I. con la Confindustria del 19 giugno 2003 e le successive prese di posizione di importanti organizzazioni datoriali e di loro dirigenti (di recente, Bombassei in Questa Rivista). Questo non solo perché alimenta una concorrenza sleale tra imprese, ma soprattutto perché, indebolendo la funzione del sindacato nel sistema, deteriora le capacità virtuose della contrattazione collettiva di contribuire ad accrescere l’efficienza e la competitività delle imprese e di estendere una rete moderna di tutele del lavoro e di promozione dell’occupazione, in un quadro di coordinamento delle regole. La contrattazione decentrata non sarebbe in grado, in sostanza, di comporre i conflitti definendo un rapporto equilibrato tra efficienza ed equità nell’allocazione delle risorse, oltre che nella distribuzione del reddito, e di evitare effetti economici e sociali negativi.
I datori di lavoro chiedono effettivamente relazioni industriali più collaborative e meno conflittuali, ma soprattutto certezza e affidabilità delle regole del gioco e un rilevante ruolo delle confederazioni nell’evoluzione complessiva del sistema e nell’orientamento dei comportamenti ai diversi livelli, in una logica di concertazione entro la quale il governo dovrebbe operare precise scelte di politica industriale a favore della ricerca, dell’innovazione, della formazione, della crescita dimensionale delle imprese, della riduzione del cuneo fiscale e contributivo, al fine di rendere più consistenti tutte le forme di retribuzione incentivante. Se gli obiettivi dei datori di lavoro sono questi, non sembra ci si possa assolutamente affidare, caso per caso, alle buone intenzioni delle parti negoziali decentrate.
In secondo luogo, si deve considerare che nei paesi europei il sistema contrattuale prevalente è ancora quello a due livelli, con decentramento coordinato, e che le ricerche e i rapporti sulle relazioni industriali in questi Paesi, così come i maggiori studiosi europei della materia (per esempio, Traxler, Visser e lo stesso Calmfors, in un volume curato con Boeri e Brugiavini nel 2002), concordano che questo tipo di sistema contrattuale produce i migliori output in termini di efficacia (nel senso che il conflitto in uscita è inferiore a quello in entrata) e mettono in guardia contro previsioni troppo affrettate sul futuro della contrattazione collettiva, in particolare di quella centralizzata, che non sembra affatto destinata a scomparire o ad essere nettamente ridimensionata, sia perché gli sviluppi della contrattazione aziendale non sono in linea con le attese, sia perché le esigenze di competitività e di efficienza delle imprese e di tutela del lavoro, pur sollecitando il decentramento, richiedono il coordinamento degli output.
Va ricordato, infine, che anche la politica del diritto e gli assetti istituzionali dell’Unione Europea si sviluppano in direzione della legittimazione e della promozione del ruolo delle parti sociali attraverso il riconoscimento del metodo contrattuale ed il loro coinvolgimento nella definizione degli obiettivi e delle politiche economico–sociali e negli interventi regolativi.
Richiamare questi aspetti non significa, però, non prendere atto del fatto che, pur essendo ancora forti e avendo ampia capacità di mobilitazione, attualmente i sindacati sono più marginali nella sfera decisionale, anche perché operano in un sistema meno protetto, pure sul piano istituzionale. Anzi, è proprio la loro incerta istituzionalizzazione una delle condizioni che li rende più esposti al variare delle contingenze economiche e politiche. Dunque, una organica regolamentazione legislativa in materia di rappresentanza per il settore privato è certamente necessaria, così come è necessario che essa sia realizzata rinnovando le ragioni di compattezza interne ed esterne all’organizzazione sindacale.
Per questo, a mio parere, non si potrebbe certamente trascurare il modello vigente nel settore pubblico, nel quale la soluzione individuata per la misurazione della rappresentatività costituisce un equilibrato compromesso nella valorizzazione delle due concezioni compresenti nelle ideologie del nostro movimento sindacale (il sindacato-organizzazione e il sindacato-movimento); consente che la rappresentatività di ciascuna organizzazione venga misurata dal consenso effettivo – in termini sia di iscrittti, sia di voti – goduto tra i lavoratori nei luoghi di lavoro e si rifletta sulla legittimazione negoziale a livello nazionale, con un flusso di quest’ultima dal basso verso l’alto; individua una soglia minima di rappresentatività, che argina la frammentazione dei soggetti negoziali ma che, una volta superata, pone in posizione di eguaglianza ciascun soggetto sindacale e, contemporaneamente, condiziona la sottoscrizione dei contratti nazionali al consenso delle organizzazione sindacali che rappresentino una percentuale maggioritaria di lavoratori (più bassa – 51% – se calcolata come media tra il dato associativo e il dato elettorale e, giustamente, più alta – 60% – se relativa al solo dato elettorale), garantendo così, anche in caso di dissenso tra i sindacati, l’effettiva chiusura del conflitto e la valorizzazione del principio di democrazia sindacale, fondato sulla volontà della maggioranza dei lavoratori.
























