di Domenico Paparella, segretario generale Cesos
Tra le questioni che dividono gli italiani Ilvo Diamanti dovrebbe inserire anche la legge Biagi. Con l’avvicinarsi della scadenza elettorale la legge Biagi costituisce uno dei crinali intorno ai quali le forze politiche e sindacali si vanno dislocando per combattere una battaglia i cui contenuti simbolici sono prevalenti. Per evitare una nuova guerra per errore, è necessario un approfondimento culturale che consenta di mantenere ciò che utile e condiviso e di abbandonare ciò che è inutile o dannoso. Occorre però partire da alcuni dati di fatto che la polemica politica e lo scontro ideologico degli anni passati hanno contribuito ad oscurare.
La prima questione concerne il tasso di elasticità tra crescita ed occupazione. Non bisogna dimenticare che per tutti i “trent’anni gloriosi” – dal 1945 al 1975 – durante i quali l’intera Europa ha conosciuto un periodo di crescita, stabilità e coesione sociale senza precedenti, era necessario, almeno in Italia, che la crescita dell’economia giungesse almeno al 3% perché l’occupazione aumentasse. Erano gli anni della legge 285 per l’occupazione giovanile e dei lavori socialmente utili, strumenti vituperati a posteriori, che hanno avuto la capacità di modificare il tasso di elasticità tra crescita e occupazione e di affrontare la disoccupazione giovanile che allora era a due cifre anche nel Nord-Est.
Con il Pacchetto Treu interviene, nel nostro modello sociale, un cambiamento epocale: vengono radicalmente cambiate le condizioni di concorrenza tra insider e outsider, viene attenuato, se non spezzato, il legame tra la condizione di lavoratore e i diritti di cittadinanza ad essa correlati, viene spezzato il legame rigido tra crescita e occupazione. Cambia così, e radicalmente, la propensione delle imprese ad assumere: dopo decenni di investimenti “labour saving”, si configurano condizioni vantaggiose per le imprese ad assumere lavoratori, ad impiegare lavoro vivo. Se la disoccupazione giovanile non è più un dramma sociale, almeno nei due terzi delle circoscrizioni italiane, lo si deve a quella legge e alla legge Biagi, che ne ha raccolto, e per molti versi perfezionato, l’ispirazione.
Vi è stato, nel dibattito degli ultimi anni scorsi, una grave sottovalutazione del fatto che la legge Biagi è essenzialmente uno strumento di ri-regolazione, seppure limitato, del mercato del lavoro. Essa dispone, ad esempio, che tutti i rapporti di lavori siano oggetto di comunicazione obbligatoria da parte dei datori di lavoro ai Centri per l’impiego. Si tratta di un decisivo contributo alla trasparenza del mercato del lavoro, che mette nelle mani delle istituzioni uno straordinario strumento di prevenzione degli abusi.
Il rinvio alla contrattazione collettiva delle condizioni di accesso da parte delle imprese all’utilizzo di queste forme di lavoro consente alle organizzazioni sindacali di esercitare un effettivo controllo sulla diffusione delle nuove forme di lavoro. Si tratta di un riconoscimento che la legge compie del ruolo e della responsabilità delle parti in quella delicata costruzione sociale che è il mercato del lavoro: costruzione che fonda il suo funzionamento e la sua legittimazione sul concetto di equità. La contrattazione collettiva è stata tanto efficace che molte forme di rapporto non possono essere attivate dalle imprese perché non trasposte nei contratti di lavoro. Il conflitto per il contratto dei giornalisti è, a questo proposito, illuminante.
Proporre perciò, come priorità della prossima legislatura, l’abolizione di alcune forme di rapporto di lavoro perché neppure le imprese le utilizzano, o addirittura l’abolizione di tutta la legge, rischia di apparire fuorviante e dannoso per gli stessi lavoratori.
Chi avrebbe da guadagnare da un puro e semplice ritorno al passato? Davvero vale la pena di impegnare il prossimo Parlamento in una operazione che rischia di riaprire uno scontro nel quale ideologismi e demagogia sono stati trasfusi a piene mani?
In verità le leggi Treu e Biagi hanno posto e pongono problemi nuovi che vanno affrontati. Sono almeno due gli effetti che andrebbero corretti. Il primo riguarda il rapporto tra lavoro, cittadinanza ed accesso al welfare. Nel modello sociale europeo la cittadinanza si perfeziona con il lavoro, ed è questa la condizione che consente l’accesso al welfare. Le leggi di flessibilizzazione del lavoro hanno spezzato questo legame, la condizione di lavoratore atipico ha conseguenze radicali nella condizione del cittadino lavoratore e nella sua possibilità d’accesso ai benefici del welfare. Non a caso è stato necessario inventare un sistema pensionistico sui generis, per cui alla precarietà del reddito attuale si somma la certezza di un reddito pensionistico futuro insufficiente a far fronte alle necessità. Altri diritti fondamentali, come la tutela del reddito in caso di maternità, malattia ed infortunio non sono più correlati, come nel passato, alla condizione di cittadino lavoratore.
Lo stesso rischio di disoccupazione involontaria o d’interruzione del lavoro per ragioni congiunturali sono stati totalmente scaricati sulle spalle di questi lavoratori. Le disparità con i lavoratori standard è radicale anche per quanto concerne il rischio di obsolescenza professionale. La costituzione dei Fondi interprofessionali costituisce uno strumento collettivo per ridurre questi rischi, con costi a carico della collettività. Per i lavoratori atipici questo rischio è completamente a loro carico. Per questi lavoratori si è determinata una situazione di cittadinanza attenuata. Il secondo effetto concerne i diritti di libertà di opinione, di associazione e di organizzazione nei luoghi di lavoro. Questi lavoratori non godono del diritto di riunione nei luoghi di lavoro e non possono partecipare alla formazione della rappresentanza dei lavoratori. Il sindacato ha accettato che lavoratori che operano nello stesso luogo di lavoro fruiscano di diritti fortemente differenziati. La contrattazione collettiva non ha affrontato i problemi della tutela di questi lavoratori, che subiscono un vero e proprio regime di segregazione politica, organizzativa e di assenza di diritto alla rappresentanza.
L’iniziativa sindacale si è sostanzialmente concentrata sui soli lavoratori delle agenzie di somministrazione, che godono di uno status in tutto e per tutto paragonabile a quello dei lavoratori standard. L’azione contrattuale a livello decentrato, seppur meritoria, non ha scalfito la condizione della grande massa dei lavoratori non standard, che solo in pochi accordi integrativi dei grandi gruppi hanno conquistato il diritto alla menzione.
La prospettiva di un cambio politico nella direzione del Paese dovrebbe aiutare il dibattito ad uscire dalle secche di una contrapposizione sterile tra abolizionisti e riformatori. Compito prioritario del legislatore è quello di sanare il vulnus nei diritti di cittadinanza che si è prodotto per questi lavoratori.
La riforma degli ammortizzatori sociali, che dovrebbe integrare l’intervento dello Stato con forme mutualistiche, così come previsto dal Patto per l’Italia, il varo dello Statuto dei lavori, che affermi i diritti politici e sindacali nei luoghi di lavoro anche per questi lavoratori, il sostegno al reddito in caso di malattia, maternità ed infortunio, la possibilità di partecipare ad iniziative di formazione continua finanziata dai Fondi interprofessionali costituiscono le priorità di un intervento legislativo urgente. Queste misure sono realizzabili solo con un consistente aumento dei contributi a carico del datore di lavoro e del lavoratore.
L’intervento legislativo dovrebbe prevedere la riduzione del cuneo contributivo sul lavoro standard ripartendone i benefici su imprese e lavoratori e, contemporaneamente, nell’arco della legislatura, unificare le aliquote al 25% sia per i lavoratori standard che per quelli non standard.
Cittadinanza, previdenza, sicurezza sociale, diritti politici e sindacali costituiscono le leve sulle quale agire per coniugare efficacemente, anche nel nostro paese, la flessibilità che esiste con la sicurezza che manca.
Altri temi andrebbero affrontati con il ricorso alla contrattazione collettiva. Le parti sociali devono decidere se il governo del mercato del lavoro è anche affar loro. Se lo è, allora debbono avviare esperienze concrete di contrattazione territoriale per unificare e tutelare la condizione dei lavoratori e dotarsi di enti bilaterali per non lasciare soli i lavoratori sul mercato del lavoro. Il sindacato, in particolare, è sollecitato a fare i conti con un modello organizzativo, di rappresentanza e di tutela dei lavoratori generato da un assetto tayloristico della produzione e del mercato del lavoro che non esiste più. Il suo compito è coniugare flessibilità con sicurezza, regolarità del lavoro con il funzionamento efficiente del mercato del lavoro esterno ed interno alle imprese. Sono problemi, questi, che non possono essere delegati ad un intervento legislativo: invocarlo, anche per queste materie, è solo il segnale di smarrimento della propria funzione sociale e di sfiducia nell’azione collettiva.
























