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Home - Primo Piano - Trent’anni di bassi salari

Trent’anni di bassi salari

di Massimo Mascini
16 Gennaio 2023
in L'Editoriale
Fmi, economia italiana in crescita per il 2018, +1,5%

Il problema che più si impone oggi nel campo del lavoro è certamente quello dei bassi salari. Negli ultimi trent’anni il salario medio italiano è rimasto più o meno lo stesso in termini reali, anzi è un po’ sceso. Nello stesso tempo i salari tedeschi e quelli francesi sono aumentati del 30%. Una sproporzione che parla da sola, soprattutto in presenza di un’inflazione che è arrivata al 12% e falcidia pesantemente le retribuzioni dei lavoratori dipendenti. La Bce crede che nei prossimi trimestri ci sarà una forte ripresa dei salari in Italia, soprattutto nel settore dei servizi, finora il più sacrificato. Un report da Francoforte è molto preciso in tal senso, ma si tratta di speranze, previsioni, non c’è alcuna certezza. È necessario che qualcosa si muova, ma davvero.

Le parti sociali sono tutte concordi nel chiedere una risalita delle retribuzioni. Maurizio Landini sostiene che deve essere recuperata una intera mensilità quest’anno e che bisogna farlo in fretta, perché, afferma, “la povertà sta erodendo anche il ceto medio e le tensioni sociali crescono”. Luigi Sbarra è d’accordo. “È indispensabile, dice, spezzare la spirale inflazionistica”. Roberto Benaglia, segretario dei metalmeccanici della Cisl, pensa che “difendere e alzare le buste paga sia la più urgente delle priorità”. Gli imprenditori sarebbero d’accordo. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, si è battuto a lungo perché la legge di bilancio eliminasse cinque punti del cuneo fiscale e non si è rassegnato, anche adesso insiste per un intervento veloce e di sostanza, soprattutto perché solo con un costo del lavoro ridotto può crescere l’occupazione. “E, afferma, non possiamo accontentarci del 60% di occupati tra i 15 e i 64 anni, nel Nord Europa il tasso è di 15-20 punti più elevato”. Marco Gay, che è presidente di Confindustria Piemonte, è pienamente d’accordo. “Gli imprenditori, afferma, sono disposti a fare la loro parte, i salari devono crescere velocemente, la condizione di base, aggiunge, è che cresca parallelamente la produttività”.

L’ipotesi di un grande (o anche piccolo, purché ci sia) accordo acquista sostanza. Stavolta anche Maurizio Landini sembra interessato. A lui non piacciono accordi troppo vasti, si accontenterebbe di soluzioni magari limitate a un solo argomento, già questa disponibilità sarebbe sufficiente. Anche perché non dovrebbero essere d’intralcio le divisioni tra le centrali sindacali, che pure ci sono. Sbarra sembra irrigidirsi quando sostiene che non è più tempo di slogan o di bandierine ideologiche, ma è preciso quando sostiene che gli obiettivi delle confederazioni sono gli stessi, ci sono solo “sensibilità diverse”. Quindi si può procedere.

Anche perché alla base della necessità di un confronto a largo raggio tra parti sociali e governo non c’è solo il tema dei salari. Il mondo del lavoro è attraversato da sentimenti molto negativi. Cresce la sfiducia, la malinconia, come testimonia il Censis, pesa il rimpianto degli anni passati, quando le speranze di una crescita, non solo economica, ma di riguardo e posizione sociale, era una realtà o quanto meno un obiettivo traguardabile. In un mirabile articolo sul Corriere della sera nei giorni scorsi Aldo Cazzullo ha raccontato dell’incertezza e delle paure che accompagnano oggi i lavoratori. Che stentano a credere nelle proprie capacità, attanagliati dalla paura di non farcela, di essere tagliati fuori da una ripresa che pure non arriva mai. Il lavoro è cambiato, ha scritto, profondamente, non ha più la carica vitale di un tempo, è diventato un peso, un fardello, del quale forse ci si deve sbarazzare. Ed ecco infatti le grandi dimissioni, il quiet quitting. Il lavoro non è più sentito come il mezzo per crescere. Vittorio Feltri crede che alla base delle carenze del lavoro ci sia oggi soprattutto la poca voglia di spendersi, di lavorare, quella spinta forte che ha consentito la ripresa generosa negli anni della ricostruzione e che adesso non c’è più. Forse è accaduto qualcosa di più, la caduta del valore del lavoro ha causato quella che Stefano Massini chiama la “tempesta perfetta”, che si è determinata per effetto di tutte le calamità che ci sono piombate addosso, il Covid, poi la guerra in Europa, l’esplosione dei costi dei prodotti energetici.

Questa serie di eventi negativi ha portato il lavoro vicino a un momento di rottura, che potrebbe arrivare anche velocemente. Se le parti sociali, magari assieme al governo, si troveranno riunite per discutere della crescita dei salari il discorso non potrà non allargarsi al tentativo di alleviare questi sentimenti negativi interni al vasto mondo del lavoro. La fiducia nel futuro nasce anche grazie a piccoli interventi, mirati proprio a far rinascere la speranza.

Massimo Mascini

Massimo Mascini

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Direttore responsabile de Il diario del lavoro

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