Grillo è il riflesso condizionato della crisi di rappresentatività dei partiti, come il 25% circa dei consensi elettorali ottenuti ben dimostra. Grillo cambia tutto, anche se al momento, al di là delle intenzioni e delle polemiche espresse, risulta difficile prevedere il come.
Una cosa però è sicura. Il suo movimento si è insinuato tra le piaghe della società civile, intercettando i malumori della gente ed offrendo in questo senso una cura: il potere di scelta al popolo, in assenza di intermediari della politica.
Né più, né meno, un esempio di democrazia diretta, simile in parte a quello delle “primavere arabe”. E’ qui dunque che Grillo ha anzitutto vinto.
La causa è tanto semplice quanto evidente. I partiti hanno continuato a coltivare interessi egoistici in piena crisi, senza comprendere i cambiamenti, a cominciare dal declino in cui il nostro Paese era (ed è) finito.
In quest’ottica, è sufficiente ricordare che, nell’anno appena trascorso, la contrazione dei consumi ha sfiorato l’allarmante soglia del 5% (la più alta in cinquanta anni) e la disoccupazione giovanile un pericoloso 40%.
Purtroppo, però, quella dei partiti non è stata l’unica crisi di questi anni. Come se non bastasse, analoghe dinamiche hanno interessato anche il nostro sistema di relazioni industriali.
La causa è altrettanto semplice. Alcuni sindacati, perdendo di mira l’obiettivo del bene comune, hanno talora agito, anziché per la tutela degli interessi di tutti i lavoratori di una categoria (cd. interesse collettivo), per il perseguimento di interessi riconducibili solamente ad una parte di essi.
E così, anzitutto non hanno accettato di fare, quando necessario, i sacrifici per consentire al nostro Paese di competere e dunque di sottoscrivere intese contrattuali spoglie dei benefici dell’era florida del mercato del lavoro.
Per questo, a partire dal 2009, tra sindacati hanno preso vita importanti divisioni che ne hanno lacerato l’unità di azione, facendo vacillare il nostro ordinamento che su essa si è sempre retto: a partire dallo Statuto dei Lavoratori del 1970, sino al Patto federativo del 1972, sino ancora al Protocollo Ciampi del 1993 o infine al Patto di Natale del 1998.
Tali contrasti, infatti, hanno portato al crepuscolo quel reciproco riconoscimento di rappresentatività tra CIGL, CISL e UIL che per anni ha garantito l’efficacia giuridica erga omnes degli accordi stipulati unitariamente da sindacati privi, come questi, di personalità giuridica malgrado l’articolo 39 della Costituzione, rimasto però inattuato, preveda esattamente il contrario.
Ne è derivato un conflitto che ha portato anzitutto alla piena presa di coscienza dell’inadeguatezza dei sindacati nazionali a regolare, nell’ottica dell’aumento della produttività, le dinamiche aziendali.
E così nel 2011, per un verso, i sindacati hanno siglato un accordo interconfederale che riconosce efficacia erga omnes ai contratti collettivi aziendali, anche in deroga al ccnl, stipulati a maggioranza dalle rsu o dalle rsa; per altro verso, il legislatore, con l’art. 8 del d.l. 138 del 2011, ha legittimato sempre i contratti collettivi aziendali con efficacia erga omnes, perché stipulati a maggioranza, a derogare non già solamente al ccnl ma anche (addirittura) alla legge.
Per altro verso ancora, sia i sindacati che il legislatore hanno disegnato un nuovo ruolo per il referendum dei lavoratori, che ha dunque assunto: per mano sindacale, la funzione di validare l’efficacia erga omnes degli accordi aziendali raggiunti dalla maggioranza delle rsa previa richiesta di almeno il 30% dei lavoratori; per mano legislativa, quella di “sanatoria” ai fini dell’efficacia erga omnes degli accordi aziendali raggiunti a maggioranza ma prima dell’accordo interconfederale del giugno 2011.
Sotto il primo profilo, che qui più interessa, perché nessun sindacato ha avuto più a cuore di riconoscere efficacia generalizzata tout court agli accordi sottoscritti dalle rsa anche dell’altro, posto che esse sono nominate, non già ad esito di un processo elettivo come le rsu, ma in ragione della semplice adesione al contratto collettivo applicato nell’unità produttiva e che, in presenza di lacerazione dell’unità sindacale, sono dunque carenti di rappresentatività.
Insomma, la crisi di rappresentatività dei sindacati ha avuto origine in alto ma poi è vorticosamente precipitata nelle mani dei lavoratori, che ora più di prima sono chiamati a prendere, per mezzo del referendum, delle importanti decisioni.
Ne viene fuori, a ben vedere, un curioso fil rouge tra la crisi dei partiti e quella dei sindacati. Ambedue portano infatti al capolinea della democrazia diretta, dando l’una potere decisionale al popolo, l’altra ai lavoratori che però “decidono” due volte: prima da cittadini e poi da lavoratori.
Se cosi è, allora ben vengano queste crisi. Si tratterebbe, in fondo, di porre di nuovo la persona al centro degli interessi come da tempo auspicato dalla dottrina sociale della Chiesa e, non molto tempo fa, a chiare lettere da Papa Benedetto XVI sulle colonne del Financial Times.
Ciro Cafiero
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