I magistrati del tribunale del Riesame di Taranto hanno depositato le motivazioni per cui lo scorso 13 giugno confermarono il sequestro dei beni del gruppo Riva Fire spa per 8,1 miliardi di euro, stabilito il 24 maggio scorso dal gip Patrizia Todisco. Sotto sigilli, in base al decreto legge 231 del 2001 riguardante la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, sono finiti conti correnti, beni mobili ed immobili considerati l’equivalente di quanto l’Ilva ha risparmiato in diciassette anni di attività evitando di investire per ambientalizzare gli impianti e fermare l’inquinamento. Ilva spa e Riva Fire spa sono indagate per disastro ambientale, inquinamento ed avvelenamento di sostanze alimentari. Scrivono i magistrati che dagli atti dell’inchiesta, emerge che nella gestione dell’Ilva di Taranto “non si sono volutamente impedite imponenti quantità di emissioni diffuse di polveri e inquinanti contenenti sostanze nocive per la salute umana (alla cui esposizione costante e continuata sono correlati eventi di malattia e morte), animale e vegetale provocando disastro ambientale con pericolo per la salute pubblica”, emissioni “risultate immediatamente evidenti sin dall’insediamento dell’attuale gruppo dirigente nello stabilimento”.
Gli avvocati del gruppo Riva avevano impugnato il provvedimento di sequestro sostenendo che si trattava di una mossa per commissariare l’attività industriale dell’acciaieria ed aggiungendo che Riva Fire, la holding che controllava Ilva, non aveva responsabilità nella gestione dello stabilimento e nei reati contestati dalla procura ionica. Per i giudici del Riesame l’importo del sequestro (il più alto d’Italia) è stato correttamente calcolato dal gip sulla base di investimenti per adeguare gli impianti e contenere l’inquinamento che la stessa Ilva in passato aveva concordato con le amministrazioni locali, senza però ottemperarvi. Per i magistrati tarantini Emilio Riva, patron della holding e la dirigenza di Riva Fire, hanno sempre gestito la società controllata. Riva era consapevole di quanto accadeva a Taranto ed aveva anche scritto a Pierluigi Bersani lamentandosi dell’attività politica del senatore Pd Della Seta, che si interessava di ambiente. Dagli atti di indagine emerge una struttura aziendale occulta, “ombra”, costituita dai così detti “fiduciari”, dirigenti non inquadrati nell’organico di Ilva spa ma direttamente collegati alla famiglia ed al gruppo Riva, i quali di fatto governavano il siderurgico, un vero e proprio “strumento di controllo della proprietà sulla vita dello stabilimento”. (LF)