Occorre evitare – spiega Maurizio Del Conte in questa analisi per Il Diario del Lavoro – di ripetere con il “’lavoro agile”’ l’errore che ha causato l’insuccesso del telelavoro, soffocato dalla rigidità delle norme. La leva della legge potrà essere utilizzata come extrema ratio e solo laddove la contrattazione lasciasse irrisolti problemi insormontabili.
Smartworking è un termine diventato improvvisamente di uso comune. Un po’ meno conosciuto è l’equivalente italiano “lavoro agile”, termine entrato nel glossario giuridico con la legge n. 81 del 2017. Al di là delle varianti linguistiche, il distanziamento sociale e l’isolamento domiciliare conseguenti alla emergenza sanitaria determinata dalla epidemia del “Covid-19” hanno repentinamente reso comune una forma di organizzazione lavoro senza rigidi vincoli di spazio e di tempo che, fino a qualche mese fa, era praticata da una cerchia relativamente ristretta di imprese, generalmente di dimensioni medio-grandi, e per una platea ancor più ristretta di lavoratori.
Secondo la rilevazione svolta dall’Osservatorio dello Smart Working del Politecnico di Milano in collaborazione con Doxa, a fine 2019 i lavoratori coinvolti da modalità di lavoro agile erano poco meno di seicentomila in tutta Italia, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente. Con il provvedimento di chiusura delle attività produttive del marzo 2020 si è prodotto un cambiamento radicale nella organizzazione del lavoro che si stima possa coinvolgere circa otto milioni di lavoratori. Fatta eccezione per i settori cosiddetti essenziali, le imprese operanti sul territorio italiano si sono trovate strette tra due alternative: sospendere ogni attività lavorativa oppure remotizzare il lavoro entro le mura domestiche dei lavoratori. E’, quindi, avvenuto uno svuotamento forzoso, improvviso e generalizzato dei tradizionali luoghi di lavoro. Questa operazione ha permesso di salvare una quota rilevante di valore della produzione nazionale che, altrimenti, sarebbe andata perduta con il lock-down. Lo scenario che ne è scaturito è del tutto inedito e imprevisto e ci restituisce una la mappa del lavoro completamente da ridisegnare.
Dal punto di vista giuridico il legislatore si è affrettato a riportare questa trasformazione all’interno del lavoro agile di cui alla menzionata legge 81/2017. Ma, a ben vedere, gli interventi sin qui realizzati sotto la spinta dell’emergenza, hanno avuto principalmente lo scopo di rimuovere vincoli e superare principi fissati proprio dalla quella legge. Dopo una prima misura limitata alle imprese in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia, prevista con il D.P.C.M. 25.2.2020, il decreto 1.3.2020 ha ampliato a tutto il territorio nazionale la possibilità di attivare il lavoro agile con una procedura semplificata stabilendo che «la modalità di lavoro agile (…), può essere applicata, per la durata dello stato di emergenza (…), dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti. Gli obblighi di informativa di cui all’art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica» (art.4).
Da ultimo, nel c.d. “decreto rilancio”, si è introdotto – fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID–19 – il diritto dei “genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali”.
In tal modo è venuta a mancare una delle caratteristiche fondamentali stabilite nella legge del 2017: la libertà delle parti nella scelta del lavoro agile e, di conseguenza, la sua modulazione in funzione delle esigenze specifiche di ogni singola azienda. A ciò si aggiungano le “raccomandazioni” contenute nei vari DPCM succedutisi tra febbraio e marzo, che hanno forzato le imprese a utilizzare il lavoro agile, implicitamente caricando le stesse imprese di responsabilità civili e penali in caso di contagio dei propri dipendenti mantenuti in servizio in azienda. Nei fatti, il combinarsi del 1° marzo e dei provvedimenti sul lock-down ha imposto il lavoro totalmente da remoto, indipendente dalla volontà delle parti e a prescindere da ogni valutazione preventiva sulla efficienza di tale modello organizzativo.
Non v’è dunque da stupirsi se, in questa fase, il lavoro da casa si è realizzato per lo più mimando le attività che venivano precedentemente svolte in ufficio e, date le condizioni di urgenza nelle quali si sono trovare ad operare le imprese, senza il valore aggiunto che dovrebbe caratterizzare il lavoro “smart”.
Entrati ormai nella “fase due”, è necessario chiedersi quale sarà il destino del lavoro agile una volta superata l’emergenza. Se, infatti, le norme “in deroga” sono state giustificate da circostanze eccezionali e imprevedibili, con l’uscita dal confinamento domiciliare ope legis il regime derogatorio perderà la sua stessa ragion d’essere. D’altra parte la sperimentazione di massa del lavoro da remoto ci offre l’opportunità, più unica che rara, di far tesoro dei punti di forza e di debolezza emersi da questa rivoluzione organizzativa nelle sue diverse varianti applicative. Una attenta valutazione di quanto accaduto potrebbe essere utile non solo per ripensare complessivamente i modelli di organizzazione del lavoro in chiave “smart”, ma dalla quale potrebbe trarre anche qualche utile indicazione il legislatore. Non è un caso che proprio in questi ultimi giorni si sia aperto il dibattito sulle possibili modifiche della disciplina della legge 81/2017 in vista della ripartenza.
Aggiornare le norme in funzione del cambiamento sociale ed economico è il dovere di ogni legislatore. E vi sono pochi dubbi sul fatto che la ripresa delle attività produttive dopo l’esperienza della pandemia non restituirà una realtà identica alla precedente. Si commetterebbe un grave errore di valutazione pensando che in questi mesi tutto sia rimasto sospeso. Al contrario, in questa fase si è prodotta una accelerazione dei processi di trasformazione già in atto, con una velocità e una magnitudine impensabili. Uno dei risultati più tangibili di tale trasformazione sarà proprio la polverizzazione dei luoghi di lavoro. In questo gigantesco esperimento di remotizzazione del lavoro si è potuto verificare empiricamente che quote rilevanti di lavoro non necessitano di essere svolte in ufficio. Si tratta di una trasformazione che impatta in modo dirompente sui tradizionali modelli di organizzazione del lavoro, ancora largamente ancorati alla valutazione della prestazione in base al tempo speso nel luogo fisico dell’impresa. Dunque, non v’è dubbio che vi sia spazio per nuove regole. L’intera architettura dell’orario di lavoro e della retribuzione come funzione rigida del tempo sono messe in crisi. Allo stesso modo, la tutela della salute psichica e fisica dei lavoratori non può più limitarsi alla sicurezza dei luoghi di lavoro, perché altri sono i fattori di rischio a cui va incontro il lavoratore agile. Si pensi allo stress derivante dal progressivo spostamento di quote di responsabilità dall’impresa al lavoratore, all’ansia da connessione e, per converso, al rischio di isolamento sociale.
Tuttavia sarà necessario usare molta cautela nell’approccio regolatorio. La cifra caratteristica della legge sul lavoro agile del 2017 è stata quella di aver disegnato una regolazione leggera, per punti cardinali: superamento dei vincoli di tempo e di luogo, libero accordo tra le parti, garanzia di una quota di lavoro in presenza per evitare emarginazione e isolamento, non discriminazione retributiva, diritto alla disconnessione e tutela della salute. Tutto il resto deve essere lasciato alla autonomia individuale e collettiva, privilegiando la contrattazione di secondo livello.
La leva della legge potrà essere utilizzata come extrema ratio e solo laddove la contrattazione lasciasse irrisolti problemi insormontabili. Occorre, insomma, evitare di soffocare con la rigidità delle norme una modalità di lavoro che si emancipa consapevolmente dalle vecchie regole del telelavoro, il cui insuccesso ha avuto origine proprio nella iper-regolazione e nell’eccesso di proceduralizzazione imposta dall’alto.
Maurizio Del Conte