Diamo notizia della pubblicazione di un libro di Paolo Sestito, responsabile del Servizio Struttura economica di Banca d’Italia, e Roberto Torrini, dirigente del Servizio Studi di Struttura economica e finanziaria sempre di Banca d’Italia, “Molto rumore per nulla. La parabola dell’Italia, tra riforme abortite e ristagno economico”, per il momento disponibile nella sola versione Kindle su Amazon.
Di seguito pubblica un estratto del capitolo 4, di particolare interesse per il nostro giornale:
4. La madre di tutte le battaglie: la controversa riforma del mercato del lavoro
L’archetipo delle riforme strutturali di cui, in Italia ma non solo, si è continuamente parlato in tutto il passato ventennio è la riforma del mercato del lavoro. Il progressivo innalzarsi del tasso di disoccupazione tra gli anni ottanta e novanta dello scorso secolo, in Italia e più in generale in Europa, ha infatti nel tempo accresciuto il consenso sulla natura almeno in parte strutturale del fenomeno, sul fatto cioè che esso dipendesse dai meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro e non dalla domanda aggregata e dalla posizione ciclica delle economie. Su questa base, organismi internazionali come l’OCSE[1], supportati da un elevato consenso accademico, hanno definito strategie di riforma delle regole che governano il mercato del lavoro, finalizzate proprio a ridurre questo nocciolo duro della disoccupazione.
Se la disoccupazione ha natura strutturale, infatti, l’aumento della domanda avrà plausibilmente l’effetto di sospingere i salari e i prezzi più che di ridurre il tasso di disoccupazione, portando a un precoce surriscaldamento dell’economia. Se ad esempio i salari sono fissati sulla base di una contrattazione tra le parti sociali che tenga scarso conto della presenza di elevati tassi di disoccupazione, o se le persone che entrano nel mercato del lavoro non hanno le caratteristiche richieste dalle imprese, o ancora se le regole che disciplinano le assunzioni e i licenziamenti accrescono i costi attesi per le imprese, il tasso di disoccupazione strutturale tenderà a essere più elevato. Sulla base dei modelli più diffusi di funzionamento del mercato del lavoro, si distingue, quindi, tra un tasso di disoccupazione effettivo, osservato, e uno strutturale. Se la disoccupazione è superiore al livello strutturale, un aumento della domanda può utilmente accrescere l’occupazione senza produrre un’accelerazione di salari e prezzi, ma se si utilizzasse la leva della domanda aggregata per cercare di contrarre la disoccupazione al disotto del livello strutturale si otterrebbe nel medio periodo solo la crescita dei prezzi.
Secondo questo modello, alquanto semplificato, riformare il mercato del lavoro significa quindi ridurre a parità di altre condizioni (ovvero per dato livello dell’output e dell’occupazione) le pressioni salariali, così da consentire un maggior livello di occupazione, per date condizioni di domanda (interna e internazionale).
In un paese come l’Italia, fortemente aperto al commercio internazionale ma privo di un proprio tasso di cambio (essendo vincolato al cambio dell’euro, che dipende dalle condizioni economiche medie anche degli altri paesi dell’area), un buon funzionamento del mercato del lavoro è ancor più rilevante, in quanto spinte salariali che si traducano in aumenti dei prezzi tendono a tradursi in una perdita di competitività, come effettivamente avvenuto nel primo decennio della moneta unica (cfr. cap. 1).
Questo schema, utile a inquadrare i termini del problema, deve essere tuttavia arricchito per dar conto in maniera adeguata della complessità del tema della regolamentazione del lavoro. In primo luogo, anche riducendo la questione al rapporto tra regolamentazione e pressioni salariali, il modello deve considerare almeno altre due variabili: la prima è l’evoluzione della produttività e la seconda è l’insieme dei fattori che influiscono sui margini di profitto delle imprese. La produttività ha un ruolo chiave, perché evidentemente la crescita del costo per unità di lavoro, ad esempio il salario orario, può essere ritenuta elevata o al contrario modesta solo rapportandola all’andamento della produzione per ora lavorata; se i salari crescono di pari passo con la produttività non vi sono pressioni all’aumento dei prezzi, né emergono problemi di competitività. Ma se la produttività non cresce, anche un contenuto aumento del costo del lavoro sospingerà la crescita dei prezzi e finirà per ridurre la domanda di beni e di lavoro. Riformare il mercato del lavoro non significa perciò impedire ai salari di trarre beneficio dall’aumento della produttività a vantaggio dei profitti, significa piuttosto evitare che la dinamica dei salari nominali pregiudichi la dinamica dell’occupazione. Quanto ai margini di profitto, anche essi svolgono un ruolo importante. Il prezzo di un bene, se le imprese non operano in mercati perfettamente concorrenziali, dipende infatti sia dai costi sia dai margini che l’impresa carica sui costi sostenuti. Una riduzione dei margini riduce pertanto il prezzo di vendita, a parità di costi, assicurando maggiori livelli di vendite e di produzione. È questo un nodo altrettanto importante del problema (ne parleremo nel prossimo capitolo, dedicato all’operatività delle imprese, nel Box A5) e infatti alcuni modelli parlano di una battaglia dei markup, ovvero la battaglia tra il margine delle imprese sui costi e il margine tra il salario effettivamente pagato e quello che assicurerebbe un pieno utilizzo del lavoro. Semplificando, le cd. riforme strutturali possono perciò operare sia sul margine di profitto, cercando di accrescere la concorrenzialità nei mercati dei prodotti, sia sulle spinte salariali, migliorando il funzionamento del mercato del lavoro. Per data produttività, il livello di produzione che può essere ottenuto senza un aumento dei prezzi dipende dall’ampiezza di entrambi i margini: maggiori questi margini, minore il prodotto e il livello dell’occupazione. Spingere la domanda per accrescere il prodotto al di sopra di tale livello di “equilibrio” tende a creare inflazione e non è quindi sostenibile nel medio periodo.
Il secondo aspetto da considerare è che in una economia monetaria la flessibilità dei salari (e dei prezzi) può avere effetti macroeconomici perversi. Con agenti economici fortemente indebitati e con aspettative sulla dinamica futura dei prezzi non ben ancorate, magari anche per via d’una forte inerzia dell’inflazione[2], una riduzione dei salari e dei prezzi può infatti innescare una perversa spirale deflattiva: una flessione della domanda che porti a un calo dei prezzi, comporta un aumento del valore reale del debito, riducendo la domanda per consumi e investimenti degli agenti indebitati, alimentando ulteriori spinte al ribasso sui salari e sui prezzi. In questo scenario, quanto più flessibili sono i mercati dei beni e dei prodotti, tanto più si alimentano riduzioni dei prezzi che, anziché riequilibrare i mercati stimolando la domanda, possono finire per ridurla, per l’appunto in una spirale perversa. Si tratta di una considerazione importante perché negli ultimi anni l’Italia e l’area dell’euro hanno corso esattamene questo rischio. L’Italia in particolare si è di fatto trovata in una poco invidiabile situazione, tra l’incudine e il martello: una maggiore flessibilità verso il basso dei salari, che li riducesse relativamente ai livelli prevalenti in Germania e negli altri paesi forti dell’area, avrebbe migliorato la competitività, e per questa via le prospettive di crescita dell’Italia, ma avrebbe anche accresciuto il rischio di innescare una spirale deflattiva, con un‘ulteriore forte compressione della domanda interna (cfr. Sestito, 2017). Il tema è strettamente legato a quello dell’efficacia delle riforme finora intraprese, efficacia plausibilmente ridotta dalla debolezza della domanda e dell’inflazione nell’intera area dell’euro (cfr. cap. 3). Esso si ricollega inoltre agli assetti della contrattazione salariale, che hanno ovviamente un rilievo diretto nella determinazione dei salari e nella caratterizzazione del processo inflazionistico e che ben poco sono stati toccati dalle innovazioni normative e regolamentari nel mercato del lavoro degli ultimi anni (cfr. infra par. 4.3).
Anche a prescindere dai possibili inconvenienti macroeconomici della flessibilità di prezzi e salari, è inoltre da considerare che talune rigidità istituzionali nel mercato del lavoro – in particolare un certo limite al potere discrezionale dell’impresa di rimpiazzare i lavoratori e quindi di esercitare un elevato potere contrattuale nel fissare i salari – hanno anche la funzione di contrastare i fenomeni di monopsonio. Nei casi di in cui le imprese godano di un significativo potere di monopsonio, le imprese potrebbero limitare i livelli di produzione per evitare incrementi dei salari, con l’esito finale di ridurre la produzione e l’occupazione sotto i livelli teoricamente ottimali. Nel modello statico tradizionale di monopsonio, un’impresa che svolga la funzione di unico datore di lavoro nel mercato locale può infatti scegliere deliberatamente di limitare la produzione perché un aumento dei livelli produttivi potrebbe richiedere di attrarre lavoratori aggiuntivi, accrescendo i salari medi sia dei nuovi lavoratori che di quelli già assunti, aumentando i costi complessivi e riducendo di conseguenza i profitti. Il parametro fondamentale in questo semplice esempio è dato dall’elasticità dell’offerta di lavoro che l’impresa fronteggia: quanto più questa è bassa (nel senso che per assumere un ulteriore lavoratore il salario deve essere aumentato di molto) tanto più l’impresa trova profittevole mantenere bassi l’occupazione, e il livello di produzione, e quindi il salario[3]. La rilevanza dei meccanismi di monopsonio è stata fino al recente passato abbastanza trascurata dalla letteratura empirica. La crescente disponibilità di micro-dati ha però evidenziato come il potere di mercato delle imprese, pur se in versioni più sofisticate[4], è un elemento spesso rilevante. A tali fenomeni si può ad esempio in parte correlare il fatto che nelle città più piccole, e nei mercati locali del lavoro meno spessi o con sistemi di trasporto meno efficienti, i salari medi sono ceteris paribus più bassi. In prospettiva, il tema del monopsonio è inoltre di potenziale rilievo in connessione con l’emergere della cd gig economy (cfr. oltre).
Il terzo aspetto da considerare è che ridurre la regolamentazione del mercato del lavoro e gli assetti che lo governano alla sola determinazione dell’occupazione e delle pressioni inflazionistiche è una semplificazione estrema. Lo schema logico prima descritto assume che la tecnologia sia data, laddove invece le regole di funzionamento del mercato del lavoro possono influire sulle traiettorie di sviluppo della tecnologia da cui in ultima istanza dipende la produttività, e che il livello della produzione (e dell’occupazione) sia l’unica dimensione rilevante del benessere. Né l’una né l’altra cosa trovano pieno riscontro nel mondo reale. Dal primo punto di vista, è da tenere presente che vi sono specifici aspetti delle “rigidità” del mercato del lavoro che riducono non solo l’occupazione corrente ma anche lo sviluppo futuro della produttività – nel caso ad esempio in cui le rigidità limitino la propensione delle imprese a innovare e investire in nuove tecnologie e in nuovi modelli organizzativi. Ve ne sono però altri che possono favorire lo sviluppo futuro della produttività, ad esempio stimolando imprese e lavoratori a costruire relazioni di cooperazione di lungo periodo e a investire quindi in conoscenze specifiche, che né gli uni e né le altre avrebbero interesse a perseguire laddove pensassero che la loro relazione reciproca sia destinata a terminare nel breve periodo (si pensi ai contratti a termine). Dal secondo punto di vista è da tener conto che, anche qualora certe regole imponessero elevati costi in termini di più bassi livelli di occupazione, esse potrebbero comunque essere razionalmente preferite dalla maggioranza dei lavoratori e dell’elettorato per via dei loro risvolti “assicurativi”. Una società che voglia, giustamente, considerare tutti gli elementi che concorrono al benessere della popolazione, e quindi non solo il livello medio del reddito e dell’occupazione, ma anche ad esempio la loro stabilità e sicurezza nel tempo, può perciò razionalmente optare per vincoli più stringenti di protezione dell’impiego, anche qualora ciò avvenisse a discapito dei livelli dell’occupazione. Considerazioni simili possono essere fatte in proposito all’interazione tra regole e modalità in cui avviene la distribuzione del reddito prodotto tra imprese (possedute comunque da una minoranza della popolazione) e lavoratori (in genere pari alla maggioranza della popolazione e dell’elettorato[5]).
La morale che ci sembra si debba trarre da queste considerazioni è che non ha granché senso parlare di flessibilità e rigidità in astratto. Occorre tenere presente che gli interessi di “padroni” e “lavoratori” possono divergere e anche e soprattutto che occorre valutare nel dettaglio quali specifici aspetti istituzionali del mercato del lavoro possano concretamente meglio coniugare gli interessi degli uni e degli altri, sia nel breve sia nel più lungo periodo. Non si tratta quindi di mettere al bando tutte le rigidità; occorre piuttosto cercare di limitare quelle che comportino perdite, in termini di efficienza economica, sia nell’immediato (il livello corrente dell’occupazione) sia a più lungo termine (deprimendo l’innovazione e la crescita della produttività). Se l’obiettivo è quello di fornire una copertura assicurativa al singolo lavoratore, occorre valutare se sia più opportuno limitare la discrezionalità dell’impresa o supportare invece i lavoratori che perdano il posto di lavoro, tramite sufficientemente generosi sussidi di disoccupazione ed efficienti servizi che ne possano facilitare la transizione verso un nuovo impiego. L’optimum sociale non va perciò equiparato alla massima discrezionalità lasciata all’impresa – che per definizione non è in grado di tenere conto degli effetti indiretti che possono discendere dalle sue scelte. Soprattutto, sarà da tenere presente che il costo per le imprese e il beneficio per il lavoratore delle regole date è mutevole nel tempo, perché dipende sia dal contesto economico – più instabili sono i mercati, maggiori sono ad esempio i costi di limitare la discrezionalità delle imprese – sia dall’effettivo sostegno che lo Stato e la società sono in grado di offrire a quanti si trovino ad affrontare periodi di disoccupazione. Le scelte da compiere in tema di regolamentazione del mercato del lavoro non sono perciò né scontate, né univoche, richiedendo un attento bilanciamento dei diversi aspetti e modifiche nel tempo che tengano conto dei mutamenti del contesto complessivo.
La composizione di questi diversi elementi non è ovviamente una questione esclusivamente “tecnica”. Da un lato gli interessi delle imprese, dei lavoratori già impiegati e di coloro che in un certo momento un lavoro non ce l’hanno non sempre coincidono tra loro. Dall’altro, diverse visioni ideali possono portare a preferire sistemi di regole diverse, a prescindere dalla loro efficienza e dagli interessi in campo. Non bisogna infatti dimenticare che le regole di funzionamento del mercato del lavoro, incidendo sulla vita quotidiana delle persone, chiamano in causa importanti elementi valoriali e assumono inevitabilmente un’elevata salienza politica. Benché le riforme del lavoro possano avere effetti sugli interessi individuali comparabili o inferiori ad altri casi di riforma – si pensi ad esempio a quegli interventi che intacchino il potere di mercato delle imprese di cui si parlerà nel Box A5 – il fatto che le regole sul lavoro coinvolgano pressoché tutta la popolazione spiega di per sé la particolare attenzione politica e sociale che su di esse si incentra. Non è quindi un caso che sul tema delle riforme del mercato del lavoro si siano accese forti controversie e si sia animato a più riprese lo scontro politico[6].
Il dibattito sulle riforme del mercato del lavoro si è di conseguenza caricato di forti contenuti simbolici, che spesso travalicano anche la loro effettiva rilevanza per gli interessi dei singoli attori. Esempio tipico ne è la battaglia sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, applicato alle imprese con oltre 15 dipendenti, che disciplina le modalità di tutela dei lavoratori a fronte del rischio di licenziamento individuale (un’analisi dettagliata è riportata nel Box A4). L’art. 18 è stato innalzato a simbolo di opposte visioni, con l’effetto di svilire l’analisi sulla effettiva rilevanza delle norme e delle proposte di loro modifica, sia per chi ne osteggiava la riforma, rappresentando le tutele dell’art. 18 come un diritto universale irrinunciabile, sia per chi quella modifica supportava, non solo perché ritenuta opportuna sul piano economico, ma anche in quanto simbolo di una rottura politica con il passato.
è plausibile che su una simile deriva ideologizzante abbiano influito anche altri fattori. Occorre considerare il prevalere nel dibattito politico Italiano di un approccio poco supportato da analisi che muovano dai problemi e dai possibili effetti delle soluzioni da adottare. Su questa, ma anche su tante altre questioni[7], va infatti osservato come il dibattito pubblico in Italia sia scarsamente informato e lasci poco spazio per gli argomenti analitici, per l’analisi delle evidenze empiriche o per la considerazione delle migliori prassi internazionali[8]. Plausibilmente di rilievo sono anche state le tattiche meramente politiche dei principali attori in campo, sia politici sia sindacali. Basti ricordare come alcuni dei maggiori tentativi governativi di affrontare il tema dell’art. 18 siano stati compiuti da capi del governo tra loro profondamente diversi – D’Alema nel 1999-2000, Berlusconi nel 2001-02 e Renzi nel 2014 – ma tutti accomunati dal tentativo di mostrare la propria determinazione nel superare il potere di veto del mondo sindacale, e in particolare della CGIL[9], sulle politiche sociali e del lavoro. Specularmente, il governo tecnocratico presieduto da Monti ridimensionò le proprie ambizioni sulla materia, nonostante l’attenzione da esso prestata nei confronti degli osservatori internazionali e lo sforzo di massimizzare ai loro occhi l’incisività della propria agenda di riforme. L’esigenza del governo tecnocratico era infatti quella di evitare di forzare lo scontro sociale in un momento già molto delicato per il paese.
[1] Il primo Jobs Study dell’OCSE del 1994, in parte emendato nel 2006 (e poi nuovamente nel 2017) con una maggiore attenzione alle specificità nazionali e lungo linee meno “liberiste”, ha fornito in larga parte la to-do-list delle riforme concretamente da implementare. In ambito europeo, è anche da ricordare il ruolo della cd Strategia Europea per l’occupazione, ufficialmente lanciata nel 1997; essa riprendeva molte delle direttrici OCSE, ma con una impostazione già all’epoca molto meno “liberista” (propugnando un modello di flexicurity che assegnava un ruolo molto importante alle cd politiche attive del lavoro) e più attenta a valorizzare il ruolo delle parti sociali e del sindacato. Per l’Italia, come meglio discusso in Sestito (2002), sia l’una che l’altra impostazione erano comunque alquanto lontane rispetto agli assetti tradizionali di regolamentazione del lavoro, e pertanto alquanto “sfidanti” sul piano dei passi da intraprendere.
[2] Le indicizzazioni (semi) automatiche dei salari ai prezzi portano a una forte inerzia dell’inflazione effettiva, perché un qualsiasi impulso temporaneo all’inflazione corrente tenderà a riflettersi sui salari e, via costi di produzione, nuovamente sui prezzi e così via. Questa caratterizzazione del processo inflazionistico inevitabilmente si ripercuoterà sulle attese d’inflazione: conoscendo queste caratteristiche del processo inflazionistico, gli operatori, formuleranno le aspettative che li guidano nella fissazione dei prezzi di vendita sulla base dell’inflazione effettiva corrente, piuttosto che tenere conto dell’obiettivo d’inflazione di lungo termine della banca centrale. Il disancoramento delle attese d’inflazione dall’obiettivo della banca centrale può però anche discendere direttamente da una scarsa credibilità della banca centrale, se si ritiene che essa non sia in grado o non sia veramente impegnata a guidare l’inflazione verso l’obiettivo. Come già discusso nel par. 2.4, una banca centrale può esser percepita come pronta ad agire contro una inflazione elevata ma disponibile ad accettare, con eccessiva accondiscendenza, una inflazione che rimanga anche a lungo sotto il target dichiarato. Ove il target ufficiale d’inflazione sia ritenuto poco credibile, le attese d’inflazione e quindi l’inflazione effettiva, tendono perciò a seguire quelli che sono gli shock più recenti sui prezzi, la cui riduzione (aumento) tende così a propagarsi nel tempo. È anche per via di tali meccanismi che l’area dell’euro ha corso il rischio di una spirale deflattiva negli ultimi anni, con aspettative d’inflazione che hanno teso a seguire verso il basso l’inflazione corrente, discostandosi invece dall’obiettivo ufficiale della BCE.
[3] Un caso particolare si registra ove l’impresa possa differenziare i salari dei suoi lavoratori: in tale situazione il livello dell’occupazione coincide con quello ipoteticamente ottenibile in una situazione di concorrenza perfetta, ma l’impresa “sfrutta” i lavoratori, pagando a ciascuno solo il minimo indispensabile perché sia disposto a lavorare, anziché il suo prodotto marginale.
[4] Ad esempio di cd monopsonio dinamico, in cui esso è legato ai processi di incontro dinamico tra domanda e offerta di lavoro e non alla esistenza, in senso letterale, d’un unico potenziale datore di lavoro (cfr. Manning, 2003).
[5] Per una puntuale discussione di questi aspetti si veda Bertola (2016). Che i lavoratori (e le loro famiglie) siano la maggioranza dell’elettorato non va peraltro dato per scontato, ove si consideri il peso dei più anziani, e dei pensionati, nella popolazione. Laddove i loro redditi siano direttamente legati ai profitti delle imprese (perché ad esempio i fondi pensione investono nel capitale delle imprese), la tradizionale dicotomia tra minoranza di capitalisti, detentori del capitale, e maggioranza di salariati diviene meno ovvia.
[6] La patologia del nostro paese non è pertanto data dal peso politico del tema, ma è costituita dalla deriva terroristica che in passato ha accompagnato il dibattito politico e sociale su questi argomenti: ben tre “riformatori” del mercato del lavoro hanno perso la vita a seguito di brutali omicidi, compiuti da gruppi terroristici che in loro hanno identificato simboli da colpire a fini di propaganda e per arrestare il processo di riforma. Tutti e tre – Ezio Tarantelli nel 1985, Massimo D’Antona nel 1997 e Marco Biagi nel 2002 – sono stati uccisi dalle Brigate Rosse. Anche se non risulta esservi una sostanziale continuità tra i responsabili del primo e degli altri due omicidi, un aspetto che accomuna i tre episodi è però il tentativo di rilancio della frangia terroristica della estrema sinistra tramite l’attacco a intellettuali che avevano un ruolo nel disegno delle politiche e di cerniera con il mondo del lavoro, dovuto al loro legame profondo con settori del movimento sindacale.
[7] Si pensi ad esempio al tema dell’immigrazione, dove emerge un forte gap tra effettiva dimensione e percezione del fenomeno, su cui ritorneremo nel cap. 9.
[8] La bassa qualità del dibattito pubblico in un paese come l’Italia può essere ricollegata alla scarsa diffusione della stampa, alla sua politicizzazione ma anche, più in generale, alle caratteristiche del nostro sistema educativo (su cui ritorneremo nel cap. 6). Le competenze effettive degli italiani sono del resto basse nel confronto internazionale, e anche la popolazione più istruita tende spesso a sottolineare gli aspetti valoriali più che quelli empirici e fattuali dei vari fenomeni, per cui l’enunciato astratto di una norma finisce col contare di più, agli occhi degli elettori, della sua effettiva implementazione o delle sue concrete implicazioni. Vi è peraltro da osservare come il problema della “superficialità” del dibattito pubblico, e la connessa crescita di peso politico di chi si presenti all’elettorato propugnando soluzioni semplici a problemi complessi, siano una tendenza che non ha interessato solo l’Italia. Sulla connessa deriva “populistica” della politica ritorneremo nel cap. 9.
[9] Le priorità e le motivazioni politiche di questa condotta erano ovviamente differenziate nei tre casi. Nel primo e nel terzo caso, i due leader pro tempore del governo, e del principale partito di centro-sinistra, è presumibile che volessero affrancare il loro partito dalla capacità della CGIL di condizionarne l’agenda politica. Nel tempo si era infatti venuto quasi a invertire il rapporto tra partiti di sinistra e CGIL, che vedeva tradizionalmente il sindacato come cinghia di trasmissione della politica. Infatti, dopo l’autunno caldo, con l’accresciuto protagonismo dei sindacati che sfociò nella stagione dell’unità sindacale, e successivamente con la funzione di supplenza che i sindacati acquisirono con la crisi dei partiti tradizionali negli anni di “mani pulite”, la CGIL aveva accresciuto la capacità di influenzare le scelte della sinistra. Nel secondo caso, al contrario, l’obiettivo era quello di schiacciare la CGIL sul partito di opposizione, valorizzando le altre componenti sindacali – anche a prezzo di demandare al sindacato poteri e facoltà regolative a discapito del legislatore, una tradizionale richiesta dell’altra principale organizzazione sindacale, la CISL – purché accettassero di indebolire il potere di veto della CGIL e contribuissero al suo isolamento.