Guglielmo Epifani ci ha lasciato. Un altro addio che si aggiunge ai tanti che in questi ultimi mesi, non anni, ci stanno colpendo. Ma stavolta il dolore è più forte, perché Guglielmo era uomo buono, di valore, di forti sentimenti. Si faceva voler bene perché si capiva che seguiva un modello preciso, che non faceva le cose a caso, pensava e poi agiva. Ha avuto molto dalla sua Cgil, prima come leader della componente socialista, poi segretario generale aggiunto, scelto da Bruno Trentin, poi vice di Sergio Cofferati, infine segretario generale della confederazione, il primo non comunista nella storia della Cgil. E anche dopo, dopo aver lasciato il sindacato alla scadenza del suo incarico, non è finito il suo impegno: ha proseguito in politica, candidato al senato nel 2013 per il Pd, di cui è stato anche segretario del Pd, in un momento particolare, nel complicato interregno del 2013 tra Bersani e Renzi, ma comunque al primo posto. E anche al partito ha portato avanti il suo compito senza clamori, con la serietà che lo ha sempre contraddistinto, con la forza che riusciva a trasmettere. Era uomo di cultura e aveva una visione chiara di quanto stava accadendo, dei pericoli come delle opportunità che si aprivano per la Cgil, il sindacato, il paese. Quando si trattava di tracciare un panorama, una mappa di quanto stava succedendo e soprattutto di quanto avrebbe potuto accadere, era insuperabile. Una dote che lo aiutava tantissimo nel suo lavoro di sindacalista.
E’ stato alla guida della Cgil in un momento difficile, quando era iniziata una fase discendente del sindacato, mentre le alleanze tendevano a sfilacciarsi e gli amici non erano più tanto amici. Ma lui andava avanti, con il passo lento del montanaro, anche se in montagna non andava. Il momento più brutto che passò forse fu quel giorno del gennaio del 2009, quando andò a una riunione a Palazzo Chigi per discutere problemi tutto compreso minori e si accorse a un certo punto che i rappresentanti del governo, di Confindustria, di Cisl e di Uil erano lì per firmare un patto sulla contrattazione e la rappresentanza che la Cgil aveva discusso sì, ma mai approvato. Ma non fece una piega, appena capì la situazione si alzò e con tutta la delegazione della Cgil abbandonò Palazzo Chigi. Avrebbe potuto iniziare un periodo molto difficile per tutti, perché c’erano tutti i contratti nazionali da rinnovare e farli senza la Cgil, contro la Cgil avrebbe potuto innescare una crisi difficile. La superò come era abituato a fare, con tutta la calma necessaria, ma senza arretrare un centimetro dalle posizioni della sua confederazione. Riuscì a portare a casa la firma dei grandi contratti, tra le parti sociali iniziò un processo di riconsiderazione delle opportunità, cominciò quel processo di riavvicinamento con le altre confederazioni sindacali, con gli imprenditori, con il governo. Aveva superato il momento di difficoltà senza dichiarare guerra, cercando l’accordo sulla linea possibile del compromesso fertile di risultati.
Negli ultimi tempi il suo ruolo era diminuito per forza di cose, aveva lasciato il Pd per tentare l’avventura di Leu, sedeva a Montecitorio ma non aveva la capacità di incidere su quanto avveniva. Ma il suo consiglio era sempre ascoltato, perché sapeva di cosa parlava, non si lasciava trasportare dalle emozioni, restava lucido. Con il sindacato non aveva più grandi rapporti, non palesi almeno, anche perché per lui valeva la massima che Pierre Carniti aveva insegnato a tutti, per cui un parroco che lascia la sua chiesa non vi torna più per dire messa, passata una fase la si considera chiusa, non si torna indietro. Ed è un peccato perché trenta e più anni passati in posti di grande responsabilità dentro la Cgil gli avrebbero dato tutti i titoli per dire la sua sul ruolo del sindacato, sulla strategia che dovrebbe essere adottata per risalire quella china che la rappresentanza dei lavoratori sembra aver fatalmente preso. Adesso servirebbe un Epifani accanto. Ma perché fosse una presenza utile dovrebbe essere accompagnata da altrettanta disponibilità da parte dei vertici confederali ad ascoltarlo e a fare tesoro delle sue indicazioni, e questo non è proprio sicuro.
Resterà nei nostri cuori, sarà un altro grande amico del cui consiglio non potremo più giovarci. Ma l’amico che per noi è sempre stato non ci lascerà, l’immagine del Guglielmo delle grandi occasioni ci resterà vicina.
Massimo Mascini