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Spinta da Draghi, l’economia italiana dovrebbe riprendere quest’anno a crescere. L’allentamento monetario di Francoforte e una maggiore flessibilità di Bruxelles sui bilanci dovrebbero dare un po’ di fiato alla domanda e fermare una recessione che si trascina da sette anni. Ma più che di ripresa bisognerebbe parlare di sopravvivenza: è tanto ossigeno quanto serve per continuare a respirare, nulla più. Per tornare allo sviluppo, l’Italia, a differenza di altri paesi, ha bisogno di molto di più di un po’ di domanda. Ha bisogno di riforme. Solo che non sono le riforme di cui parlano Bruxelles, Berlino e il governo Renzi. La zavorra italiana è un modello di sviluppo che non funziona più.
Dal dopoguerra, i tassi di sviluppo sono stati sistematicamente superiori a quelli degli altri paesi, sia pure, come quelli di tutti, in declino. E’ dal 1990 che l’Italia è stata scavalcata: gli altri hanno continuato a camminare, più o meno spediti, mentre l’Italia strisciava. A destra e a sinistra, gli economisti hanno pochi dubbi: si è fermata la produttività. Il nodo è lì e una recente ricerca indica che i segnali non mancano. Il confronto viene fatto con la Svezia e con un’altra economia che viene definita malata, ma lo è assai meno dell’Italia e sembra essere stata in grado di reagire: la Francia.
Anzitutto, i brevetti. L’innovazione italiana, come viene misurata dall’indicatore brevetti/abitante appare sistematicamente inferiore, rispetto a quella svedese e la situazione è drasticamente peggiorata dal 2009. L’andamento francese è identico, ma su livelli costantemente migliori di quelli italiani. Questo divario è il risultato diretto della differenza di investimenti nella Ricerca&Sviluppo: la Svezia investe il 3,5-3,8 per cento del suo Pil, la Francia il 2,25 per cento, l’Italia solo l’1-1,3 per cento. Non è una differenza casuale: anche la Svezia, negli anni ’80, ha registrato un calo di competitività, ma ha saputo reagire con una netta virata sull’high-tech che l’Italia ha mancato. Tuttavia, i dati mostrano che la differenza di impegno sulla R&S non riguarda solo l’high-tech, ma anche i settori tradizionali.Come i brevetti sono figli della R&S, a sua volta la R&S è risultato diretto del livello della scuola e dell’educazione. La stessa ricerca che l’indice del capitale umano per persona, in Svezia, è sistematicamente superiore a quello francese e italiano. Attenzione, però. Fino al 1990, i francesi stavano peggio di noi. Da allora, il capitale umano appare sistematicamente e significativamente superiore in Francia, rispetto all’Italia. La frattura del 1990 appare sempre più decisiva. E’ da quel momento che il miracolo economico italiano si esaurisce e l’Italia precipita indietro. Anche in Francia, vent’anni fa, la percentuale di laureati nella forza lavoro era inferiore a quella svedese, anche se meno di quanto avvenisse in Italia.
Ma, oggi, la Francia ha chiuso il gap, mentre quello italiano è rimasto immutato.Produciamo meno laureati e siamo anche meno capaci di trattenerli. Il 6,55 per cento dei laureati svedesi, nel 2010, ha scelto di andare a lavorare all’estero, mentre la stessa decisione l’hanno presa il 9,14 dei laureati italiani. La scuola, insomma, diventa la cartina di tornasole delle speranze di sviluppo italiane a lungo termine. E noi continuiamo a perdere terreno. Già negli anni ’80, la Svezia investiva nella scuola più dell’Italia, circa due punti e mezzo di prodotto interno lordo.
Questo gap è rimasto praticamente immutato fino ai giorni nostri. Il dato più inquietante è la dimostrazione che si può reagire. E la Francia ha saputo farlo. All’inizio degli anni ’80, era allineata con l’Italia. Oggi, ha più che dimezzato il divario di investimento nella scuola, rispetto agli svedesi, mentre noi non l’abbiamo mosso di un centesimo di punto.
Maurizio Ricci