Si è tenuto ieri, 22 giugno, il convegno “Le donne, il lavoro e la crescita economica”, curato dagli economisti della Banca d’Italia, sui divari di genere nel mercato del lavoro in Italia, sui relativi impatti per la crescita economica e sulle politiche volte a ridurre tali disuguaglianze. La vicedirettrice generale della Banca d’Italia, Alessandra Perrazzelli, in apertura del convegno, ha sottolineato che l’ampliarsi della distanza tra l’Italia e il resto d’Europa in materia parità di genere si fa sempre più profonda e che “la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro limita le prospettive di crescita economica dell’Italia”.
La cartina di tornasole di questo divario sono i salari: nel Belpaese, infatti, le donne guadagnano il 10% circa in meno rispetto agli uomini. Una criticità che trova origine nella percorsi scolastici: se le ragazze mostrano mediamente un rendimento superiore rispetto ai colleghi di sesso maschile, tuttavia le scelte sui percorsi di studio tendono a ricadere su settori associati a rendimenti inferiori. E una volta approdate sul mercato del lavoro, per alcune di loro le condizioni di divergenza si accentuano soprattutto dopo la nascita dei figli: la probabilità per le donne italiane di non avere più un impiego nei due anni successivi alla maternità è quasi doppia rispetto alle donne senza figli; questa differenza, benché si attenui nel tempo, è rintracciabile almeno fino a 15 anni dalla nascita del primogenito. Un fenomeno che la letteratura definisce child penalty. A causa di questi ritardi, verso la fine della carriera lavorativa, le donne che appartengono al decimo superiore della distribuzione salariale guadagnano in media il 30% in meno rispetto agli uomini che si trovano nell’ultimo decimo. Questa disparità riflette anche il fatto che le donne hanno difficoltà a raggiungere posizioni di vertice all’interno delle aziende, e spesso lavorano in settori che offrono compensi mediamente più bassi. Di conseguenza, anche i redditi pensionistici delle donne risultano significativamente inferiori.
Sebbene durante lo scorso decennio siano stati registrati miglioramenti nell’accesso al lavoro e relative retribuzioni per le donne, per Perrazzelli resta una tendenza “del tutto insufficiente”: il tasso di partecipazione femminile si colloca ancora su un livello particolarmente basso nel confronto europeo, inferiore di quasi 13 punti percentuali rispetto alla media Ue. È ancora al di sotto di quel 60% che era stato indicato come obiettivo da raggiungere entro il 2010 dall’Agenda di Lisbona e dei traguardi impliciti nell’Agenda Europa 2020 che avrebbero comportato per l`Italia un sostanziale allineamento della partecipazione femminile alla media europea.
Nel 2012, in Italia il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro era pari al 53,2%, 20 punti inferiore rispetto a quello maschile; nei dieci anni successivi il tasso di attività femminile è aumentato di 3,3 punti, il doppio di quello degli uomini, e nel primo trimestre del 2023 ha raggiunto il livello più alto dall’inizio delle serie storiche, il 57,3%. Questa tendenza positiva “va inquadrata nel complessivo miglioramento della qualità del capitale umano – ha aggiunto la vicedirettrice della Banca d’Italia -. Già da almeno un paio di decenni le donne sono circa il 56% dei laureati ogni anno. Nel 2022 le laureate in discipline scientifiche e tecnologiche sono state circa il 20% in più rispetto al 2012. Un ulteriore tangibile risultato positivo riguarda la presenza femminile negli organi di amministrazione delle società quotate, pari a circa il 43% nel 2022 a fronte del 7,4% nel 2011: tale aumento è principalmente attribuibile all’attuazione della legge Golfo-Mosca”.
La situazione più difficile resta quella del Sud: “Nel Mezzogiorno, a tassi di partecipazione particolarmente bassi per entrambi i generi si associa un divario uomo-donna pari a oltre 25 punti percentuali nel primo trimestre di quest’anno (circa 14 punti nel Centro Nord)”. E anche i dati relativi ai successi delle donne laureate “vanno interpretati secondo una visuale più ampia. Nonostante la crescita registrata nel numero di laureate nelle discipline Stem, le donne che si laureano in materie scientifiche sono ancora solo il 15% delle laureate totali (il 33% tra gli uomini), suggerendo pertanto che vi sono ampi margini per ulteriori progressi in questo campo”.
Ancora oggi, “barriere culturali disincentivano troppe ragazze a non cimentarsi – ha spiegato la vicedirettrice della Banca d’Italia – con lo studio di quelle discipline, non solo scientifiche, che sono associate a migliori prospettive occupazionali e salariali. Queste barriere comportano un costo significativo per le donne che si manifesta immediatamente dopo il termine del percorso di istruzione: a un anno dalla laurea il divario salariale uomo-donna è già pari al 13%; è del 16% dopo un anno dal diploma, per coloro che decidono di non proseguire gli studi”.