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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - L’immaginazione che manca per contrattualizzare i ‘’fattorini della pizza’’

L’immaginazione che manca per contrattualizzare i ‘’fattorini della pizza’’

di Maurizio Ricci
18 Dicembre 2018
in Poveri e ricchi, Analisi

Suona il campanello: “Pizza”. Forse è un segno dei tempi, ma il paradigma del lavoro del XXI secolo rischia di essere questo ragazzo sullo zerbino con il cartone di Foodora o di Deliveroo. E l’attualità di uno strumento nato un secolo e mezzo fa – in un altro mondo- il sindacato, finisce per essere giudicata, davanti al tribunale dell’opinione pubblica, dalla capacità di interpretare, gestire, garantire i mutamenti portati dalla novità della prestazione lavorativa attraverso piattaforma digitale, si tratti di Uber o di Foodora. Eppure, si tratta di un fenomeno di nicchia,  che non arriva, in nessun paese, allo 0,5 per cento degli occupati e, in Italia, neanche allo 0,05. Secondo il calcolo faticosamente tentato dalla Banca d’Italia, non più di 10-12 mila giovanotti (quasi tutti maschi, in effetti), di cui quasi 8 mila concentrati nel food delivery e il resto, spiccioli sparsi fra trasporti e servizi domestici.

Attualmente, secondo lo studio di Bankitalia, meno di un quarto arriva allo status di co.co.co (i contratti di collaborazione continuativa), il resto sono partite Iva fasulle. Il sindacato, in verità, ha tentato di fare la sua parte. L’ultimo contratto del settore Trasporti, Logistica, Magazzino, siglato solo un anno fa, introduce la figura del rider, il fattorino della pizza. Ma la novità è rimasta sulla carta, perché bisogna ancora dare corpo a questa figura: chi è e cosa fa; con quale inquadramento contrattuale; con quale orario di lavoro. Paletti decisivi sui quali si è afflosciato anche l’inesauribile attivismo verbale del neoministro del Lavoro, Luigi Di Maio, che aveva promesso uno statuto del rider, l’estate scorsa, quasi ancora prima di sedersi sulla poltrona di via Flavia, ma di cui non si è più saputo nulla.

All’estero, sono andati più avanti. O con i tribunali (in America e in Inghilterra) o con i contratti sindacali (in Danimarca e in Belgio) o con le leggi (in Francia) i lavoratori della gig economy – come viene chiamato il lavoro su chiamata via Internet – sono vicini ad avere paga minima, ferie, malattia e contributi previdenziali. Un motivo, tuttavia, che giustifica il ritardo italiano c’è. Si chiama Uber. All’estero, la gig economy fa rima con i nuovi servizi taxi. Anche se spesso occasionale e saltuaria (dipende: nei paesi anglosassoni due terzi degli autisti lo considerano un reddito aggiuntivo, ma in Francia la stessa percentuale lo identifica come la principale fonte di guadagno) guidare la macchina per altri si presta ad una prospettiva lavorativa a lungo termine, che comporta anche degli investimenti, a cominciare dall’auto. In Italia, Uber ha trovato, invece, un divieto di accesso. La resistenza delle gilde dei tassisti ha bloccato la possibilità di noleggio auto senza licenza. Il risultato è che la gig economy italiana ha una geografia tutta diversa da quella americana o francese, centrata su una prestazione lavorativa assai più volatile, casuale, sfuggente. Su 50 milioni di fatturato delle piattaforme digitali di distribuzione del lavoro, 40 milioni di euro riguardano le piattaforme di distribuzione, moltiplicatesi da 1 a 26 nel giro di sei anni, con un successo innegabile. Ancora nel 2015, il loro fatturato si fermava a 7 milioni di euro. E tre anni fa, distribuivano compensi ai rider per 2 milioni di euro l’anno. Oggi, per 10.

Chi sono questi rider? La mappa disegnata dalla Banca d’Italia ci restituisce un universo in cui gli stranieri sono meno di un quarto, i laureati il 18 per cento. Gli studenti il 48 per cento. Difficile che lavorino per più di sei mesi di seguito. Quasi impossibile ci tornino o ci restino. Anche la singola prestazione lavorativa è volatile. Secondo il database di Foodora, ogni rider lavora, in media, 19 ore a settimana. Ma è una media a cui si arriva partendo da punti molto diversi. Il 5 per cento dei fattorini è in giro a fare consegne per un totale – difficile da credere – vicino alle 100 ore a settimana (14 ore al giorno per 7 giorni). Ma il 60 per cento non arriva alle 10 ore settimanali (tre serate a settimana).

Per guadagnare quanto? Anche oltre 2 mila euro al mese per quel 5 per cento di stakanovisti della consegna. Il grosso – il 60 per cento – non arriva a 250 euro. Per metterli davvero in un contratto, il sindacato ha bisogno di qualcosa che scarseggia da anni: immaginazione.

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Giornalista

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