di Pier Paolo Baretta, segretario generale aggiunto Cisl
In piene vacanze estive, la cronaca economica sé occupata dell’ipotesi di unificazione degli enti previdenziali Inps ed Inpdap. Il quotidiano Il Messaggero, pochi giorni dopo ferragosto, rivela la esistenza di un progetto del Governo che prevede l’immediato accorpamento dei due enti. L’idea, che pare ispirata da Palazzo Chigi e condivisa da Padoa Schioppa, viene intestata, in particolare, ai ministri della Riforma della pubblica amministrazione, Nicolais, e del Lavoro, Damiano.
Come era prevedibile, nei giorni successivi la discussione si è accesa. Sul piano politico il senatore Treu, sia pure con prudenza, ha appoggiato la proposta, mentre sul piano sindacale si sono registrate posizioni articolate. Podda, segretario della categoria dei pubblici della Cgil, si è dichiarato disponibile, ma le dichiarazioni della confederazione di Corso d’Italia sono apparse più prudenti o, addirittura, contrarie (Morena Piccinini e Paolo Nerozzi). La Uil, con Foccillo, è apparsa d’accordo, mentre la Cisl ha espresso un parere contrario (Tarelli, Baratta e Baretta).
Ma, nei giorni successivi, il ministro Damiano ha confermato il piano del Governo e la intenzione di accorpare, a breve,i due enti ed ha rinviato il tutto ad un incontro col collega Nicolais; dopo questo incontro lo stesso Damiano, pur non smentendo che il progetto sia in campo, ha affermato che la unificazione Inps-Inpdap “appare prematura”, chiudendo, in tal modo, la querelle estiva e rinviandola all’autunno. Alcuni precedenti
Fin qui la cronaca recente. Ma analizziamo il problema. La tesi di accorpare gli enti previdenziali è di vecchia data. Più o meno ad ogni legislatura, da 10 anni a questa parte, e tutte le volte che si riparla di pensioni, riemerge l’ idea di ridurre il numero degli enti previdenziali o, addirittura, di farne uno solo.
All’inizio della legislatura di centrodestra si era nuovamente affacciata l’ idea di razionalizzare. Si era parlato, dopo il commissariamento della maggior parte degli enti, di una riforma, che poi si è tradotta in una legge delega, ormai scaduta. E’ stata ventilata, ad un certo punto, la proposta di abolire l’Ipsema (l’ente dei marittimi). Proposta alla quale si sono opposti sia gli armatori che i sindacati. Poi non se ne è fatto più nulla. Anzi, dall’interno dell’ente, su pressione del Civ, si sono levate più voci a sostegno dell’ente unico dei trasporti.
Di fatto, dopo la costituzione dell’Inpdap (attraverso la fusione di tre enti specifici), l’unica operazione significativa è stata, recentemente, lo scioglimento dell’Inpdai (l’ente dei dirigenti di azienda) e la confluenza del suo fondo in quello dei lavoratori dipendenti dell’Inps. Si è trattata di una operazione poco seria: quando, dopo un pesante processo di ristrutturazione del mondo industriale che ha toccato anche i dirigenti, il numero dei pensionati iscritti a quel fondo stava per superare il numero degli attivi ed il fondo tendeva al passivo, il Governo Berlusconi ha fatto un regalo alle imprese scaricando gli oneri futuri di quel fondo nell’Inps. Anzi, beffa in più, a carico del fondo lavoratori dipendenti, sicché, oggi come domani, sono l’impiegato e l’operaio (il cui fondo pensioni, depurato dai fondi speciali, è in attivo) a pagare le pensioni ai propri dirigenti! Accorpare o riformare?
Accorpare non è semplice. Esistono storie e strutture molto stratificate. Innanzi tutto esistono identità professionali e categoriali che è difficile e, per certi versi, nemmeno giusto cancellare. La storia previdenziale dei lavoratori dei singoli settori è fatta di caratteristiche ed autonomie che corrispondono, spesso, alle diverse condizioni di partenza. E’ pur vero che, negli ultimi anni, le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro e del mercato del lavoro hanno introdotto scenari inediti che, da un lato, assimilano e semplificano, dall’altro rendono più specifiche alcune realtà.
Inoltre, in ordine alle prestazioni, esistono molte differenze di merito. Gli agricoltori, ad esempio, hanno a che fare con la specificità delle giornate non pagate; i lavoratori dello spettacolo con la particolarità che, da sempre, sono, di fatto…a tempo determinato o a progetto; i marittimi che sono un vero settore “globale”. Inoltre, in molti casi si eroga non solo la pensione, ma anche la malattia o altre forme di assistenza; in altri l’istituto competente gestisce non solo i contributi previdenziali, ma anche il Tfr. L’Inps eroga solo le pensioni, l’Inpdap anche il Tfr (con la particolarità tipica del pubblico impiego). L’Enpaia, infine, opera anche nel campo della previdenza complementare.
Come si vede, esiste una pluralità di impostazioni che ha certamente bisogno di essere riformata, semplificata e modernizzata. Ma volerlo fare rende necessario un approccio serio e rigoroso; implica un livello di analisi e di proposte ben più sofisticate del semplice accorpamento dell’esistente. Serve una riforma vera e completa, non aggiustamenti ai fini del solo immediato risparmio di costi o del controllo politico.
Il sindacato è favorevole ad una discussione seria. Non debbono, però, esservi pacchetti preconfezionati o logiche congiunturali. Come l’intero capitolo della previdenza, anche la sua gestione ha a che fare con la struttura e con soluzioni di medio periodo. Ritoccare le pensioni o riformare gli enti che le gestiscono non è oggetto di Finanziaria. Sarebbe oggetto di una legislazione specifica, per disegno di legge più che per decreto, che segua accordi tra le parti. Ma tant’è: l’emergenza nella quale ci troviamo fa sì che sia la Finanziaria il luogo dove si decide tutto, dai piccoli risparmi alle riforme di struttura. E’ un errore, e non dobbiamo tacerlo, ma non ci sottraiamo alla discussione. Alla fin fine, ciò che conta non è il luogo dove si discute, ma le modalità, i fini e le scelte che si compiono.
Una questione così delicata come la riforma degli enti previdenziali non può essere confusa con il deficit di bilancio. O meglio, anche i risparmi che si possono ottenere vanno inquadrati in una prospettiva generale, altrimenti il rischio è quello di operare manovre tampone i cui effetti saranno di maggiori costi futuri e di disservizi.
Per questo, se il Governo vuole davvero discutere di enti, si faccia dare, in Finanziaria, una delega generale (basta rinnovare quella recente di Maroni) dalla breve durata (sei, otto mesi) ed avvii un serio negoziato con le parti sociali.
Alcuni problemi di merito
In questo negoziato, che ha bisogno di tempo, si potrà discutere dell’intero problema. A cominciare dalla periferia, dove razionalizzazioni e semplificazioni possono portare ad uno sportello unificato nel quale l’utente possa avere una maggiore certezza e contestualità di informazioni ed assistenza.
Presupposto di ogni riforma che tenda a degli accorpamenti degli enti è il completamento della totalizzazione, ovvero del “libretto previdenziale” collegato al libretto di lavoro, sicché ciascuno possa accumulare il risultato della propria contribuzione, indipendentemente dal settore dove ha lavorato o dall’ente al quale era iscritto. Sembra ovvio ed elementare, ma oggi non è così.
Inoltre, se si vuole realizzare un intervento razionale, è necessario affrontare preventivamente la vexata quaestio della separazione tra assistenza e previdenza. Ciò al fine di gestire meglio il sistema di prestazioni ed operare più risparmi di quanti se ne verificherebbero accorpando burocrazie e senza inquinare nuovamente il tutto, come avverrebbe se andasse avanti lipotesi ventilata – secondo le indiscrezioni – di inglobare, tout court, l’Ipsema nell’Inail.
Dietro l’angolo, infatti, si nasconde la idea super burocratica dell’ente unico,
L’Inail può, certamente, assurgere a ruolo di grande ente di assistenza pubblica per tutti, ma separato della previdenza, per la quale si può immaginare un minor numero di istituti rispetto a quelli attuali, mantenendo alcune differenze di fondo, ad esempio quella tra pubblici e privati.
Ancora, tra i problemi aperti esiste quello delle prospettive degli enti professionali. L’esperienza dell’Inpdai ci rende guardinghi. La costituzione di un unico grande ente può diventare la scusa per versare nel grande mare tutto ciò che non funziona o è destinato a non reggere nel futuro. Il tema della semplificazione comincia dalla razionalizzazione delle casse private e dal superamento dei molti privilegi che ancora si annidano nelle pieghe del sistema.
Infine, va affrontato il rapporto tra previdenza obbligatoria pubblica e previdenza integrativa, complementare. In più di un convegno l’Inpdap ha sollevato il problema del ruolo degli enti nella previdenza, avocando a sé la competenza. Lo stesso ha fatto l’Ipsema e, come abbiamo già detto, l’Enpaia. Non c’è dubbio, infatti, che tutti quegli istituti che già gestiscono, a diverso titolo, il Tfr intravedono, nell’avvio della previdenza complementare, così come concepita nel negoziato recente che ha portato al decreto Maroni nel quale si prevede il silenzio/assenso, un ruolo proprio. Se non altro in quanto già in possesso di una banca dati ragguardevole (al di là dei limiti informatici di questo o quell’Ente che possono essere oggetto di sinergie con altri più attrezzati senza arrivare all’accorpamento). Ma, proprio il centrosinistra, nel suo programma elettorale, ha rilanciato, anche per l’Inps, la questione Tfr. Nel decreto Maroni – la cui applicazione va anticipata – per l’Inps si prevede un ruolo “residuale”: ovvero, il Tfr affluisce all’Inps solo nel caso di non scelta del lavoratore verso una delle possibilità che gli vengono offerte di destinazione del proprio Tfr, compresa quella di lasciarlo in azienda o di destinarlo ai fondi aperti o alle polizze assicurative individuali o ai fondi regionali, cioè dove vuole. Diversamente, nel programma elettorale del centrosinistra viene ampliato il ruolo dell’Inps, con una formulazione, per la verità, che si presta a più interpretazioni, ma dalla quale se ne può, certamente, evincere la possibilità che il ruolo dell’Inps nella gestione del Tfr (e, di conseguenza – perché no? – della previdenza complementare) da “residuale” diventi “principale”. Che sia questa recondita idea una delle ragioni che fa sì che nel Governo si insista tanto nell’accorpamento con l’Inpdap, così da costituire precedente nella direzione di un maggior ruolo degli enti nella previdenza complementare o almeno nella gestione del Tfr?
Si può discutere di tutto e, quindi, anche di questo. Ma è bene sapere che una ipotesi di questo tipo configura una rivoluzione negli equilibri del sistema previdenziale tale da non escludere che, a quel punto, si possa prospettare, addirittura, il superamento del sistema contributivo ed il ritorno al retributivo. Va ricordato, a questo proposito, che all’inizio dell’estate, in un convegno all’università La Sapienza di Roma, il professor Pizzuti, presentando il rapporto sul sociale, sostenne, esplicitamente, che, anziché finanziare la previdenza complementare a capitalizzazione e gestita dalle banche o dalle assicurazioni, si doveva rivalutare la pensione pubblica e, a tal fine, affidare all’Inps l’intera gestione, comprensiva del Tfr. Al convegno era presente il presidente della Camera, Fausto Bertinotti!
Come si vede questa discussione trascina scenari ben più complessi della, già complicata, proposta di accorpare gli enti. E’ per questo che il Governo, come chiunque, ma più di altri, deve ben valutare le implicazioni e le conseguenze delle proposte che lancia.
La governance
C’è un aspetto specifico della riforma degli enti che merita una riflessione a sé. Per la importanza che assume, ma anche perché esso è strategico ed urgente anche indipendentemente dalla ipotesi di accorpamento. Si tratta della questione della governance.
La complessità dei problemi finora enunciati ha reso oggettivamente difficile intervenire. Alle difficoltà oggettive si è accompagnata una certa reticenza sindacale, dettata, soprattutto, dall’assenza di un quadro di riferimento organico. Inoltre, abbiamo assistito ad una clamorosa incoerenza della politica che, da un lato, proclama la volontà di snellire e, dall’altra, occupa, lottizzandoli, tutti i posti di tutti i consigli di amministrazione, presidenze e direzioni generali. Fortunatamente, in molti casi, i prescelti si sono dimostrati competenti, ma ciò non giustifica il metodo. E’ difficile riformare, snellire o accorpare se si vuole sistemare uno stuolo di persone per sole ragioni politiche.
Questo riprovevole stato di cose ha accentuato la crisi della governance degli istituti di previdenza. Ma la questione della governance è, per noi, decisiva e discriminante nella valutazione di qualsiasi ipotesi o progetto.
In effetti, negli ultimi anni la discussione si era spostata dagli accorpamenti alla governance, ma anche in questo caso senza alcun risultato. L’ultima volta che si fece questa discussione fu a cavallo tra la legislatura di centrosinistra (ministro del Lavoro Salvi) e quella di centrodestra (ministro Maroni). Il pretesto era, dopo anni di valida gestione straordinaria, la necessaria conclusione del comissariamento dell’Enpals (l’ente previdenziale dei lavoratori dello spettacolo, della comunicazione e degli sport).
Nelle discussioni (col ministro Salvi prima e col sottosegretario Brambilla poi) si arrivò ad ipotizzare una interessante riforma della governance. L’attuale sistema di gestione, definito “duale”, è nato dopo la repentina scelta delle parti sociali di uscire dai consigli di amministrazione, sull’onda del clima di Tangentopoli, senza, però, che per il sindacato ciò fosse una necessità, Nel sistema di gestione in vigore sono previsti quattro organi di gestione: presidenza, direzione generale, consiglio di amministrazione (di nomina politica) e Civ (di nomina delle parti sociali).
La discussione, dopo che gli stessi Civ denunciarono la crisi del sistema duale, si orientò verso la definizione di una nuova forma di governance.
L’ipotesi di lavoro, che può rappresentare, ancora oggi, il banco di prova della volontà riformatrice del Governo e delle forze politiche, prevede una struttura composta da tre organi: un C.I. -Comitato di indirizzo- (qualcosa di meno di un consiglio di amministrazione, qualcosa di più di un consiglio di vigilanza), composto da rappresentanti della politica, delle parti sociali o da queste ultime indicati (la Cgil, infatti, conservava una riserva sulla presenza diretta dei sindacalisti negli organismi di gestione); una sorta di amministratore delegato, figura di fiducia del Governo (sul modello delle Asl), che sostituisce, rafforzandone le competenze, l’attuale direttore generale ed ha la rappresentanza legale dell’istituto; un presidente, nominato dal Governo, all’interno di una rosa di nomi proposta dalle parti sociali, che assume la rappresentanza istituzionale dell’istituto.
Ragioni politiche fecero sì che questa proposta non decollasse. Eppure essa è di tutta attualità. Si tratta, è chiaro, di un compromesso tra le diverse esigenze, ma risolve, a mio avviso, brillantemente la natura della governance plurale di istituti così originali e strategici quali quelli previdenziali e assistenziali pubblici. Se da un lato, infatti, non vi è alcuna ragione per la quale (superato anche il clima politico-istituzionale di Tangentopoli) i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, in quanto legittimi rappresentanti degli associati, restino fuori dalla gestione di enti che sono, prevalentemente, finanziati dai contributi sociali, dall’altro è ovvio e ragionevole che il Governo voglia e debba essere presente nella gestione di bilanci pubblici così rilevanti al cui pareggio la collettività contribuisce. Oggi la situazione è squilibrata e va rimediata.
Conclusione
L’agenda, anche in questo campo, si presenta complessa, ma interessante e non impossibile da affrontare. Se il Governo e la politica intendono seguire la strada principale e non le scorciatoie di comodo, possiamo ipotizzare un confronto serio, ma il cui esito sia una vera riforma, che chiuda per anni il capitolo, e non un aggiustamento di comodo. Per questo, ripeto, la soluzione più seria è una delega al Governo per consentire, in tempi brevi, una trattativa rigorosa e completa. Lo stesso dobbiamo fare per le prestazioni, rinunciando ad intervenire sul valore della pensione ed orientandoci a gestire la flessibilità dell’età di uscita, anche attraverso una sua lievitazione. Dalla legge Dini ad oggi sono cambiate molte cose, ma due soprattutto. La prima riguarda la esplosione, oltre ogni previsione, del mercato del lavoro verso la flessibilità; il che pone la urgenza della condizione previdenziale delle giovani generazioni. Il ritardo che stiamo accumulando nell’affrontare questa situazione, che possiamo definire una emergenza, è colpevole. La seconda è data dalla straordinaria crescita dell’attesa di vita, anche qui oltre le previsioni. Dato positivo e che come tale va vissuto, ma che implica una nuova politica di welfare. A queste priorità è necessario rispondere; ora. La riforma delle prestazioni e la riforma degli enti che le gestiscono, pertanto, possono andare insieme. Più presto si comincia a discutere sul serio, attorno ad un tavolo e non a seguito degli annunci estivi, meglio è.