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Il Diario del Lavoro

Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali

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Home - Approfondimenti - Analisi - Occasione per una rilettura

Occasione per una rilettura

5 Novembre 2012
in Analisi

1. La presentazione annuale del volume “l’Annuario del Lavoro” – curato da Massimo Mascini – costituisce una delle occasioni più interessanti per una riflessione sulle politiche sociali e, specificatamente, sul nostro sistema di relazioni industriali nel quadro più ampio di una Unione Europea delle cui normative gli attori che in questo contesto operano non possono non tener conto. Anche se atti vincolanti in materia sono infrequenti – come sottolinea la Paola Monaco nel suo articolo: La normativa comunitaria. Lungo tutto il corso del 2011 non vi è, aggiunge, un solo provvedimento in materia di politica sociale – volto ad introdurre nuove disposizioni finalizzate ad armonizzare le legislazioni degli stati membri – che possa essere annoverato come normativa vincolante (p. 129). L’articolo coglie puntualmente il cuore dei problemi che formano oggi oggetto di discussioni e confronti fra gli stati europei e, all’interno di ciascuno di essi, tra le forze politiche e sociali coinvolte in una crisi che soltanto a livello continentale può trovare la possibilità di sciogliere i suoi nodi. “Nel corso degli anni – si dice nell’articolo (p. 130) – ciò che è risultato chiaro è la non sostenibilità di uno stato europeo affidato per la “ moneta” ad una istituzione sovrastatale, ma privo di referenti univoci per la governance economica e finanziaria” per cui nel 2011, come già nell’anno precedente, si è assistito ad un silenzio normativo che si sta sempre più intensificando.

Il fatto è che fin dal trattato istitutivo della Comunità europea, la politica sociale è rimasta in larga misura appannaggio degli stati nazionali e, a livello comunitario, ha costituito la “variabile dipendente” della politica economica europea. Già Raymond Rifflet (La politique sociale des Communautés Européennes, “L’Europe en Formation”, settembre-ottobre 1971) nel giudicare i risultati raggiunti dalla Comunità europea in materia di politica sociale, aveva osservato come i limiti innegabili che li caratterizzavano fossero dovuti alla volontà degli stati aderenti di conservare pressoché intatta la loro sovranità in campi particolarmente sensibili e dai quali dipendono in maniera non indifferente  – occorre dire –  le oscillazioni negli orientamenti di voto dell’elettorato. Volontà peraltro, salvo alcune eccezioni, – aggiungeva Rifflet – non contrastata dai partners sociali, datori di lavoro e sindacati dei lavoratori, in quanto ritenevano più facilmente salvaguardabili gli interessi concreti delle categorie rappresentate, il potere e l’influenza politica conquistati, quando non i privilegi acquisiti, all’interno dei confini nazionali. Si tratta di osservazioni che riguardano, in particolare, il movimento dei lavoratori e ne spiegano l’isolamento relativo perché, specialmente nei periodi di crisi, le soluzioni dei problemi passano – come la cronaca quotidiana mette in evidenza – per le decisioni delle istituzioni comunitarie e per le condizioni da esse imposte. Condizioni drammatiche a valle delle quali i sindacati reagiscono a livello nazionale senza risultati concreti (vedasi i casi di Grecia, Spagna, Italia, Portogallo) avendo preferito esercitare la loro azione prevalentemente nei paesi in cui operano e all’interno dei quali promuovono azioni di massa e forme spontanee di drammatizzazione anche emotiva del conflitto nella speranza di influire sulle decisioni dei pubblici poteri. Con risultati il più delle volte poco incisivi.

 

2. I mancati progressi sul piano dell’unione politica, realizzabili solo attraverso una devoluzione di sovranità da parte degli stati membri, ha  comportato conseguenze non indifferenti in campi importanti quali il mercato del lavoro impedendo un progressivo necessario allineamento delle normative nazionali in settori di particolare importanza, quali il welfare e il diritto del lavoro, che vengono generalmente governati sulla base di opportunità politiche a breve, sulla spinta del processo di finanziarizzazione dell’economia, e non riformati strutturalmente tenendo conto di una prospettiva di lungo periodo. Appare però importante cogliere nell’operato dei governi dei diversi paesi le differenze qualitative che li distinguono sia pure all’interno di una linea di tendenza che li accomuna. Per queste ragioni sarebbe stato utile se l’Annuario ci avesse offerto un’analisi delle normative più interessanti ed efficienti, in materia di politica sociale, in vigore nei paesi dell’Europa occidentale, da assumere come possibili modelli di riferimento, quali ad es. possono essere considerati, pur nelle loro specificità, quello tedesco e quello scandinavo. Modelli cui tendere, con gli opportuni aggiustamenti suggeriti dai contesti cui sono destinati, attraverso un progressivo auspicabile allineamento che la ripresa del processo di costruzione dell’unità politica europea. potrebbe favorire.

I sistemi più avanzati di cui si è detto ripropongono, fuori di ogni astratta teorizzazione, il tema della concertazione come metodologia concreta con la quale affrontare una politica di riforme – specialmente in una situazione di crisi – attraverso un progetto di sviluppo che tenga nella giusta considerazione i problemi dell’equità. E’, quello della concertazione e delle varie forme in cui essa può essere attuata, un tema caduto in disuso nel nostro paese dopo l’ accordo del 3 luglio 1993 quando, grazie alla mediazione di Gino Giugni, allora Ministro del lavoro, venne firmato un importante accordo tra Confindustria e organizzazioni sindacali in base al quale gli aumenti salariali non avrebbero mai potuto superare il tasso di inflazione programmata. Riflettendo su quella esperienza Giugni (Le memorie di un riformista, Il Mulino, 2007, p.165) a 14 anni di distanza da quell’evento, dirà che quell’accordo “sancì il rilievo strategico e l’alto valore della concertazione sociale” nel mentre il “dialogo sociale” introdotto nel Libro Bianco di Marco Biagi “è un metodo inadeguato a realizzare una politica economica condivisa e, anche per questo, efficace” per cui “bisogna comprendere che, per riformare il paese, è indispensabile riprendere con convinzione la strada della concertazione”. Ciò non è avvenuto a causa, innanzitutto, delle profonde divisioni – favorite dall’azione governativa dei governi di centro-destra – che in questi anni hanno attraversato le organizzazioni dei lavoratori nel mentre, come si  sa, una politica sindacale unitaria costituisce una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per realizzare politiche concertate. Negli ultimi anni anche in seno alle organizzazioni datoriali la concertazione ha trovato sempre minori consensi

Delle ragioni di queste divisioni e di questi ripensamenti l’Annuario del lavoro ci offre analisi, approfondimenti, interpretazioni che ci aiutano a comprendere le difficoltà e le contraddizioni in cui si dibatte il nostro sistema di relazioni industriali e i comportamenti degli attori che ne sono protagonisti.. Alcuni degli articoli suppliscono, inoltre, a quella funzione di analisi comparativa e di riproposizione dei temi più attuali a livello europeo, di cui si diceva. Essi servono a rendere più evidenti i guasti della situazione italiana che in questo 2011 si sono notevolmente aggravati.

Estremamente utile e puntuale la ricostruzione che Massimo Mascini compie degli eventi più significativi verificatisi nel corso dell’anno. Le sue “cronache” costituiscono le tessere di un mosaico che illustra gli eventi più significativi e ne offre una visione d’insieme che induce l’autore a ritenere che “lo stato delle relazioni industriali è andato progressivamente peggiorando” (p. 9).

Vi è un filo rosso che collega la maggior parte dei contributi contenuti dell’annuario. I punti salienti sono: a) gli accordi separati sottoscritti negli stabilimenti FIAT ad iniziare da quelli per Mirafiori (del 23 dicembre 2010) non firmato dalla Fiom, e per Pomigliano (del 29 dicembre 2010) dal quale la Fiom ancora una volta si tiene fuori. Quest’ultimo accordo, avallato da un referendum, costituisce “non una piccola intesa su uno o due punti, ma un vero contratto di settore a chiarire che la FIAT non ha più alcuna intenzione di applicare il contratto dei metalmeccanici” (Mascini, p. 24). In tutti e due i casi Cisl e Uil si piegano al diktat della Fiat e alla sua minaccia di non investire se non saranno accettate le sue condizioni. Non così la Confindustria. Il suo Centro studi, in un comunicato immediatamente dopo la conclusione della trattativa, paventa che l’accordo possa accrescere l’instabilità sociale del paese; b) l’accordo unitario interconfederale del 28 giugno 2012 che ha introdotto un sistema di deroghe ai contratti nazionali di categoria; assegnando però ad essi la funzione di coordinare il livello nazionale di contrattazione con quello aziendale; c) l’art. 8 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 che da un lato sovverte la struttura della contrattazione collettiva prevista dall’accordo interconfederale e, dall’altro, apre la possibilità di rivedere l’art. 18 dello “statuto” in sede di contrattazione aziendale; d) la definitiva sottoscrizione, in data 21 settembre 2012, dell’accordo interconfederale del 28 giugno. Accordo che costituisce una dichiarazione di sconfessione di quanto stabilito dall’art. 8 e di denuncia dei danni che da esso potrebbero derivare.

 

3. Nella Introduzione Carlo Dell’Aringa rileva ( p. 11) come nell’anno considerato le vicende delle relazioni industriali abbiano riservato non poche sorprese. L’accordo interconfederale del 28 giugno, come si sa, ha consentito, attraverso un compromesso tra storie e culture diverse, di pervenire ad una intesa unitaria e “ha rimosso – scrive Lauralba Bellardi (p. 71) – l’anomalia di un ‘sistema’ contrattuale regolato da un accordo separato (quello del 2009) – e, come tale, intrinsecamente ineffettivo – e riavviato il processo regolativo su alcuni dei profili più critici delle relazioni industriali emersi in modo particolarmente virulento proprio nella vertenza Fiat”. L’accordo ha prodotto, inoltre, un notevole rinnovamento del sistema italiano prevedendo una struttura contrattuale a doppio livello e ha dato una soluzione razionale ai problemi della rappresentatività sindacale e della esigibilità dei contratti. A questo accordo sia la Confindustria che la CGIL hanno pagato un prezzo. La prima il minacciato distacco, poi avvenuto, della FIAT dalla Confederazione; la seconda una sempre maggiore incomprensione e l’inasprirsi dei rapporti con la FIOM. L’accordo distingue coerentemente le funzioni spettanti ai diversi livelli contrattuali non contraddicendo l’ordine gerarchico esistente tra contratto nazionale di categoria e accordi a livello d’impresa. Al primo – recita il protocollo d’intesa – spetta di “garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore”. Il contratto aziendale, invece, “si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto nazionale di lavoro di categoria o dalla legge”. Esso ha, quale finalità principale, quella di stimolare la produttività “realizzando una più precisa specializzazione funzionale dei due livelli di contrattazione” come affermava, già, nel 1977, la risoluzione di una commissione governativa presieduta da Gino Giugni e di cui facevano parte Massimo D’Antona e Marco Biagi. L’accordo interconfederale ammette che “i contratti collettivi aziendali possono definire, anche in via sperimentale e temporanea, su materie specifiche, intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali”. Viene introdotta in tal modo, per favorire forme mirate di flessibilità e di crescita della produttività, la possibilità di deroga fissando, però, modalità e limiti al fine del necessario coordinamento tra i due livelli.

L’accordo del 28 giugno era stato avversato dalla FIAT per due ordini di ragioni. In primo luogo perché le preferenze dell’azienda automobilistica, dice Dell’Aringa; (p. 11) avevano virato decisamente a favore di un forte decentramento della contrattazione collettiva ispirato al modello americano del business unionism che non conosce il contratto nazionale di categoria. In particolare l’azienda automobilistica contestava – sostenuta nella sua rivendicazione dal ministro Sacconi – la non inclusione di una clausola retroattiva e di validità erga omnes che riconoscesse, legittimandoli, gli accordi aziendali precedentemente siglati. Accordi che, come nel caso di Pomigliano, asseriscono la prevalenza delle intese aziendali – se sottoscritte dalla maggioranza dei lavoratori – rispetto al contratto nazionale quando le prime intervengono su materie regolate dal secondo. Si trattava non di una semplice clausola ma di un preciso indirizzo tendente a sovvertire la struttura contrattuale vigente costruita su due livelli, nazionale e aziendale, al primo dei quali è riconosciuto un ruolo di coordinamento che il secondo non deve contraddire. Dopo l’accordo di Pomigliano la Fiat si era poi rapidamente indirizzata verso “contratti tagliati a misura delle proprie esigenze aziendali” (Berta, p. 178). L’altro motivo riguardava il presunto vulnus che l’accordo avrebbe portato al grado di flessibilità che si sarebbe altrimenti potuto realizzare nell’attività aziendale esaltandone le capacità di fronteggiare la concorrenza internazionale. La Marcegaglia, invece, secondata da CISL e UIL, nello sforzo di portare anche la Cgil (cioè il maggiore sindacato italiano) al tavolo delle trattative, si era dimostrata favorevole al decentramento ma non sino al punto di svuotare di ruolo il livello nazionale della contrattazione.

L’accordo interconfederale è stato un evento molto importante in quanto ha ricreato rapporti unitari tra i maggiori sindacati e possibilità di dialogo costruttivo tra le parti sociali. Esso ha prodotto, al tempo stesso, una situazione di incertezza – nata dalla presenza di una duplicità di regolamentazioni che disciplinano i rapporti aziendali – su quale sia il contratto applicabile, sollevando in tal modo un problema di esigibilità. Spettava alle parti sociali, che di questa situazione contraddittoria erano state protagoniste, trovare il modo di sanare la situazione che si era venuta a creare. Due le soluzioni possibili. La prima, la più naturale, era quella di far prevalere i contratti nazionali come previsto dall’accordo interconfederale, procedendo ad una ricontrattazione degli accordi aziendali stipulati. Ma a ciò si opponeva la FIAT minacciando – come poi avvenne – l’uscita dalla Confindustria qualora l’accordo non avesse risolto il problema della retroattività. La costituzione di una federazione autonoma dell’industria dell’auto era la seconda soluzione possibile in quanto avrebbe garantito la legittimità dei contratti sottoscritti da CISL, UIL, anche se non dalla FIOM-CGIL.

Vi era una terza via, quella intrapresa dal ministro Sacconi con l’intenzione da un lato di garantire per via legislativa una retroattività che assicurasse la copertura agli accordi aziendali sottoscritti dalla FIAT e, dall’altro, di reintrodurre motivi di divisione tra le organizzazioni sindacali al fine di isolare nuovamente la CGIL. Questa operazione è stata attuata inserendo l’art. 8 nel decreto legge 13 agosto 2011, n. 138. Le nuove regole, ampliano considerevolmente il numero di materie suscettibile di deroga al contratto nazionale di categoria e, di fatto, fanno venir meno il rapporto gerarchico tra contratto di categoria e patti aziendali nei modi in cui era stato stabilito dall’accordo interconfederale. Il provvedimento, dice Dell’Aringa, (p.12), “non ha risolto solo il problema della retroattività ma ha anche capovolto l’impalcatura della contrattazione collettiva nel nostro paese”. Con l’art.8, infatti, il contratto nazionale di categoria viene a perdere la centralità e quel ruolo di coordinamento che l’accordo interconfederale del 28 giugno gli aveva riconosciuto. La disposizione di legge, inserita non a caso in una decretazione d’urgenza, ha prodotto (Tiziano Treu, “Europa”, 19 agosto 2011) – una balcanizzazione del diritto del lavoro ingiusta e pericolosa per i lavoratori ed anche per le nostre aziende. Gian Primo Cella, a sua volta, riferendosi alla iniziativa legislativa del ministro Sacconi afferma che l’art. 8 del decreto legge 13 agosto 2011 n. 138 “rappresenta il più rilevante intervento legislativo sulla autonomia delle parti sociali effettuato nella intera storia repubblicana” (p. 141). Un intervento che “potrà avere non pochi effetti destrutturanti sull’intero sistema” in quanto “nei contesti europei il decentramento non controllato della contrattazione prepara il terreno al declino delle relazioni industriali come forma di regolazione e del ruolo connesso degli attori collettivi” (p. 137).

Quello dell’on. Sacconi è un esempio da manuale di una politica di destra, di segno opposto, cioè, rispetto all’indirizzo riformistico-evolutivo di matrice socialista dato da Giacomo Brodolini prima, da Gino Giugni poi, all’azione di governo. Come abbiamo precedentemente notato, si tratta di una iniziativa legislativa condotta contro i principi dell’autonomia collettiva rifuggendo, al tempo stesso, da un’azione concertata. L’accanimento posto dall’ex ministro del welfare, attaccando lo “statuto” e i principi che presiedono all’effettività dei diritti dei lavoratori, ne sono una conferma.

Cisl e UIL – e la stessa Confindustria – in un primo momento non furono contrarie all’art. 8 in quanto sanava retroattivamente gli accordi separati da loro sottoscritti con la FIAT. Successivamente, però, prevalse la preoccupazione per le conseguenze che la destrutturazione del sistema contrattuale avrebbe potuto produrre. In particolare temettero di perdere la possibilità di controllare e coordinare l’azione delle loro articolazioni territoriali e aziendali. Si pervenne così, il 21 settembre, alla firma di un’intesa. che dava attuazione all’accordo del 28 giugno, integrata da un significativo impegno formale. Nelle due frasi finali si afferma che le parti sottoscriventi “concordano che le materie delle relazioni industriali sono affidate all’autonoma determinazione delle parti. Conseguentemente si impegnano ad attenersi all’accordo interconfederale del 28 giugno applicandone compiutamente le norme facendo sì che le rispettive strutture a tutti i livelli si attengano a quanto concordato”. Il sen. Sacconi si affrettò a dichiarare che l’intesa del 21 settembre non comportava alcun depotenziamento dell’art. 8 dal momento che una legge non può essere ridimensionata nella sua portata da un accordo tra le parti. L’art. 8, in effetti, garantisce soltanto la retroattività degli accordi stipulati. Per il futuro l’intesa del 21 settembre impedisce alle imprese associate alla Confindustria e ai sindacati di categoria affiliati ai sindacati firmatari dell’accordo, di far ricorso all’art. 8. E’ evidente che le norme da questo previste possono comunque essere utilizzate da sindacati di comodo o da aziende non iscritte alla Confindustria. La firma del 21 settembre segnava inoltre la confortante ripresa di un dialogo unitario che ha però conosciuto, nel corso del 2012, fase alterne .

 

4. Nel valutare gli eventi che hanno movimentato, con tensioni destinate ad accentuarsi, la scena italiana nel 2011, sembra opportuno considerare la forte incidenza che in tali eventi hanno due componenti. La prima è rappresentata dalla gravissima crisi internazionale che colpisce le economie dei diversi paesi. La seconda è relativa alle conseguenze che il processo di globalizzazione induce sui sistemi nazionali di relazioni industriali imponendo ad essi una profonda trasformazione in quanto dal loro modo di operare dipende in larga misura la efficienza del sistema produttivo di beni e servizi e la capacità delle aziende di stare sul mercato. Ovviamente – osserva Cella ((Un commento, p. 136)) – non tutti i comparti produttivi sono toccati pienamente dai mercati globali, ma nell’insieme la regolazione del mercato del lavoro ne risulta inevitabilmente colpita. Questo problema è alla base del caso FIAT, di una azienda che si è fortemente internazionalizzata, specialmente attraverso l’acquisizione della Chrysler, aumentando in tal modo la sua capacità di competizione nel settore. Un comparto, questo, la cui potenzialità produttiva in Europa è, al giorno d’oggi, largamente superiore alle possibilità di assorbimento del mercato, esasperando di conseguenza, con la competizione, le strategie difensive messe in atto dalle aziende automobilistiche. Si tratta di strategie che incidono direttamente sui rapporti di forza tra le parti imponendo ai sindacati risposte adeguate che in Italia appaiono in grave ritardo. Nel mentre il governo “tecnico” – anche per il difficile equilibrio politico-parlamentare sul quale si regge e per la situazione in cui versa l’economia del paese – tende ad affrontare le crisi aziendali, le questioni sociali che ne discendono e le grandi vertenze sindacali in atto avendo come fondamentale riferimento più che le questioni che si pongono nella loro drammaticità, gli orientamenti e gli indirizzi della Comunità europea burocraticamente applicati. Non vengono utilizzati in tal modo gli spazi di decisione autonoma che comunque rimangono alla disponibilità dei governi e che potrebbero essere spesi per realizzare una maggiore equità, riducendo la crescente divaricazione esistente nella società tra i diversi ceti sociali anche in quanto la liberalizzazione dei mercati tende a portare con se una maggiore diseguaglianza..”Ad un capo della distribuzione del reddito si cancellano i limiti agli alti salari, le retribuzioni dei manager aumentano insieme ai dividendi, sotto la pressione dei mercati finanziari – osserva Andrew Glyn (Capitalismo scatenato, Brioschi, Milano, p.230). Al capo opposto, i salari vengono resi più flessibili in nome della creazione di nuovi posti di lavoro” e , naturalmente, per fronteggiare la competizione che si fa ogni giorno maggiore col decrescere della domanda.

La situazione che si è venuta a creare nel nostro paese fa dire a Lauralba Bellardi (p. 75) che sul futuro pesano due variabili essenziali: “una crisi economico-finanziaria sulla quale lo stato ha una capacità di governo ridotta e un quadro politico appena mutato ma ancora incerto quanto a tenuta e ad orientamento – favorevole o non ostile – nei confronti delle relazioni industriali”.A sua volta Gian Primo Cella, osservando il comportamento degli attori e allargando la riflessione all’insieme delle esperienze europee, segnala come si sia in presenza di una fase di declino. delle relazioni industriali documentata dalla flessione del tasso di sindacalizzazione (del lavoro ed anche delle imprese), dalla caduta della conflittualità industriale e, infine, dalla riduzione della copertura contrattuale. Le ricerche effettuate in argomento hanno proposto – dice Cella – una “nuova teoria della convergenza”. Essa prende le mosse dalla constatazione che anche i sistemi più avanzati ed efficienti (dal Ghent system dei paesi nordici ai comitati d’impresa tedeschi) stanno cambiando significato e funzioni in conseguenza del diverso balance of power che nella società globalizzata si è venuto a determinare tra gli attori delle relazioni industriali per la caduta del potere contrattuale dei rappresentanti del lavoro subordinato. Si sarebbe in tal modo determinata – pur permanendo differenze significative tra paese e paese e diversi modi di reagire al fenomeno –  una “convergenza neo-liberale” – così l’ha chiamata, dandone una interpretazione politica in larga misura condivisibile, lo studioso italiano Lucio Baccaro – che costituirebbe il segno più evidente del mutamento in corso (p. 135).

Questa interpretazione dei mutamenti in atto e delle relative conseguenze ha numerosi punti di contatto con l’analisi di Tiziano Treu (p. 209) a giudizio del quale le grandi trasformazioni avvenute hanno invertito non solo gli assetti economici e produttivi ma tutte le istituzioni politiche e sociali che costituiscono la struttura portante delle democrazie liberali Sono infatti le istituzioni che regolano i rapporti individuali e collettivi di lavoro ad essere investite più direttamente e più profondamente “perché le trasformazioni e la crisi hanno alterato le basi stesse su cui si sono costruiti nel secolo scorso i sistemi di diritto del lavoro e di relazioni industriali: la grande fabbrica fordista popolata di una classe operaia omogenea, lo Stato nazionale con la sua legislazione di tutela e di sostegno del lavoro, sistemi economici relativamente protetti alimentati da una crescita che si riteneva stabile”.

In Italia la “convergenza neo-liberale”, occorre dire, è stata favorita dai governi di destra. Infatti nel corso della presidenza Berlusconi l’esecutivo, cioè il soggetto deputato a dare equilibrio ed efficacia al sistema di relazioni industriali, ha teso il più delle volte a fare da supporto a scelte aziendali quando non ad entrare nelle vertenze interne al mondo imprenditoriale come nel caso Confindustria-Fiat a favore delle ragioni di Marchionne contro una Marcegaglia colpevole tra l’altro di aver criticato duramente la politica economica del governo. Come ci ricorda Massimo Mascini (p.23) a Marchionne che afferma di non considerare applicabile negli stabilimenti Fiat il contratto nazionale dei metalmeccanici, il direttivo della Confindustria del 16 dicembre 2010 replica dichiarando la “propria disponibilità a ricercare soluzioni per intensificare gli investimenti delle multinazionali in Italia ma non a costo di scardinare le relazioni industriali costruite in tanti anni”.

Sembra opportuno richiamare questi giudizi nel momento in cui Maurizio Sacconi presenta al Senato, un disegno di legge di modifica delle disposizioni previste dalla riforma dei contratti operata dal Ministro Fornero. E’ pur vero che la recente riforma meriterebbe di essere sostanzialmente emendata, ma con correzioni di segno opposto a quelle proposte dall’ex Ministro  che peraltro appaiono al momento fortemente minoritarie. Nella relazione che accompagna il disegno di legge il sen. Sacconi sostiene che occorrerebbe ripristinare in pieno la legge Biagi da lui varata (che è cosa in buona parte diversa dal Libro Bianco Biagi) ampliando il campo d’applicazione dell’art. 8 della legge 148 del 2011 che – come si è visto – permette al contratto aziendale di derogare ai contratti nazionali e alle normative stabilite anche in materia di licenziamenti per giusta causa regolati dall’art. 18 dello Statuto. Si tratta di un orientamento – che ha in se una componente autoritaria – fondato sul rifiuto del principio dell’autodeterminazione delle parti sociali. Non certo per restituire alla politica, il suo primato sull’economia ma per fare del potere politico, attraverso un processo di atomizzazione contrattuale, l’ago della bilancia da muovere sulla base di scambi politici da realizzare di volta in volta con settori importanti dell’imprenditoria.

 

5. Gli eventi del 2011 sembrano segnare – sia pure tra molte incertezze e pericoli di preoccupanti passi indietro – una fase di svolta. Questo aspetto è posto in evidenza da un passaggio dello scritto di Lauralba Bellardi secondo la quale (p. 75) l’accordo intersindacale del 2011 “definendo un sistema contrattuale più marcatamente decentrato in un periodo di crescente gravità del contesto economico, conferma la cesura tra due epoche contrattuali: quella precedente alla globalizzazione nella quale decentramento e centralizzazione si alternavano abbastanza nettamente in relazione all’andamento positivo o negativo del ciclo economico e del mercato del lavoro, e quella successiva nella quale la tendenza al decentramento diviene stabile e mira a consentire l’adeguamento flessibile – in senso migliorativo e peggiorativo – delle condizioni di lavoro nelle singole imprese o nelle diverse aree territoriali all’andamento del contesto economico-produttivo, mettendo in crisi il modello competitivo almeno nei limiti in cui indebolisce il ruolo dei  livelli superiori di contrattazione, pur confermandone la presenza”.

Le analisi, svolte dai diversi autori, sulle quali ci siamo soffermati e le argomentazioni a supporto, sono in larga misura condivisibili. Esse pongono, al tempo stesso l’interrogativo di quali siano le linee di tendenza sulle quali si sta muovendo il nostro sistema di relazioni industriali. I dubbi, le incertezze che si possono nutrire, dipendono innanzitutto dal fatto che purtroppo (Cella p. 138-139) “a segnare la specificità del contesto italiano è soprattutto la divisione, talvolta rissosa, fra gli attori sindacali” che costituisce “un carattere del tutto atipico nel panorama internazionale”. Divisione che “riguarda in particolare la categoria dei metalmeccanici ”. Le ragioni di ciò vanno ricercate nelle matrici politiche e dottrinarie delle organizzazioni sindacali, si pensi ad es. alla matrice marxista e cattolica rispettivamente di Cgil e Cisl, le due maggiori confederazioni italiane del lavoro. Esse ci offrono una possibile spiegazione del perché riemergano continuamente tra le righe – nei contrasti che contrappongono l’una all’altra – gli echi del classismo e dell’interclassismo che sono state alla base delle loro culture. Anche dopo il superamento del collateralismo e la fine delle ideologie politiche, non avendo rinnovato adeguatamente le categorie di analisi con le quali interpretare una realtà in continuo mutamento, i sindacati tendono, specialmente nei periodi di maggiore difficoltà, quale quello attuale, e in una situazione di declino delle relazioni industriali, a ricorrere alla vecchia cassetta di attrezzi riverniciati per l’occasione. Di qui le notevoli difficoltà a trovare – al di là dei momenti unitari su fatti specifici – linee di convergenza strategica che presuppongono una rifondazione culturale dell’agire sindacale a specchio delle grandi trasformazioni in corso. La mancanza di un approccio in larga misura condiviso, frutto di una analisi aggiornata del capitalismo globalizzato, e della sua variante nazionale, l’impossibilità di incidere a livello comunitario e, tanto meno, a proiettare la loro azione su di una dimensione internazionale, segna il perimetro assai circoscritto in cui si muove il sindacato italiano. Al tempo stesso le contraddizioni, segnalate dai contrasti in atto tra le parti sociali sono rese più gravi dal rifiuto dello Stato di farsi garante di un quadro normativo entro cui sindacati e imprese siano tenuti ad operare.

E’ questa una ulteriore spiegazione, tra le altre s’intende, dei comportamenti dei sindacati e del loro collocarsi su posizioni estreme: a favore comunque di accordi imposti dalla controparte o, all’opposto, come la Fiom nella vertenza Fiat, pregiudizialmente contrari – anche in polemica con la propria Confederazione – a sedersi ad un tavolo negoziale presupponendo l’inutilità di una trattativa che si ritiene segnata nei suoi risultati. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad accordi (Pomigliano, Mirafiori, Grugliasco), non negoziati nei loro contenuti : L’ accettazione della proposta aziendale viene giustificata dalla scelta di un male minore compiuta in cambio di investimenti (progetto Italia) e non delocalizzazione all’estero degli impianti. L’impegno assunto dalla Fiat è peraltro privo di garanzie, come gli eventi successivi stanno dimostrando. Nel secondo si tratta di un rifiuto pregiudiziale a discutere contenuti di accordi con proposte a carattere ultimativo riguardanti materie di grande rilievo sindacale (malattia, diritto di sciopero, rapporto tra accordi aziendali e contratto nazionale di categoria). dandone per scontata l’inutilità. In tutti e due i casi i sindacati – Fim-Cisl e Uilm da un lato, Fiom, dall’altro – hanno vissuto la loro fondamentale e irrinunciabile funzione di agenti contrattuali del mondo del lavoro in modo contraddittorio che può essere descritto attraverso l’espressione: nec sine te nec tecum vivere possum. La contrattazione collettiva (di un accordo o di un contratto) è, infatti, quel processo attraverso il quale, nella società industriale, si è pervenuti alla istituzionalizzazione del conflitto sociale. Essa si fonda sulla negoziazione che avviene tra un un’associazione di lavoratori, da un lato, e un imprenditore o un’associazione di imprenditori, dall’altro, al fine di stabilire i trattamenti economici e normativi sottostanti al rapporto di lavoro. La negoziazione è pertanto, storicamente, il fondamentale compito istituzionale al quale il sindacato non dovrebbe mai sottrarsi anche se la rottura delle trattative può essere la inevitabile conclusione dell’impossibilità di pervenire ad un incontro tra posizioni diverse..

 

6. Alla luce di quanto è stato detto, un maggior approfondimento richiede la posizione della Fiom, per le implicazioni ad essa sottese. Le vicende relative al “caso Fiat” sollevano infatti un interrogativo: come mai malgrado le sue posizioni radicali, la sua sostanziale autoemarginazione dalle vertenze Fiat, la sua conflittualità nei confronti della stessa linea della Cgil e l’ambiguità derivante da una posizione tra sindacato e movimento, rimane l’organizzazione maggioritaria tra i lavoratori del settore?

Nunzia Penelope nel suo contributo al volume, “La FIOM, Tra sindacato e movimento”, offre una sua interpretazione. A suo avviso Maurizio Landini recupera, in polemica con Susanna Camusso, la linea sindacale di tipo movimentista di Claudio Sabattini con in più una estrema attenzione alla medianicità. Combattendo il gigante capitalista ( la FIAT) La Fiom si è trovata al centro di un progetto politico che da una difesa dei diritti si allarga ad una ridefinizione di un’idea di economia, lavoro, paese, di fatto riportando di moda la vecchia “lotta di classe”, ma in senso più ampio che in passato, rivalutandola come riscatto del povero sul ricco, del debole verso il potente, riempiendo in tal modo un vuoto politico che si era creato nel 2008 con l’uscita della sinistra radicale dal Parlamento (pp. 290-293).

A riflettere sulle vicende che hanno visto la Fiom assumere un ruolo indiscusso da “antagonista”, delle politiche imprenditoriali attraverso una contestazione che va persino oltre la mera dimensione sindacale, viene da pensare che a causa dei caratteri involutivi del sistema di relazioni industriali, per le ragioni di cui si è ragionato e per la fine della centralità dell’industria nel mondo globalizzato, ciò che rimane della classe operaia – ma non solo – reagisca alzando il livello dello scontro. Si tratta, comunque, non più della classe operaia della fabbrica fordista al centro della società industriale che l’immaginario collettivo collega direttamente alla catena di montaggio, ma di lavoratori di tipo nuovo che partecipano a processi altamente integrati governati da modelli informatici che collegano le diverse fasi della produzione e la raccordano con la gestione. Una classe lavoratrice composita, in cui i colletti blu sono ormai minoranza, che non intende mettere in discussione le istituzioni democratiche della società ma un sistema che non riconosce più i diritti – incominciando dal diritto al lavoro e nei luoghi di lavoro – che la ” classe” aveva conquistato in un secolo di lotte.

La contrapposizione tra Fiat e Fiom e tra quanti con le posizioni dei due contendenti si identificano, può produrre pericolose crisi sociali. In una situazione del genere il rischio è quello (Cella, p. 137) che ricompaia “sotto nuova veste (ma non lontana dalla one best way di memoria tayloristica) l’avversario numero uno delle relazioni pluralistiche: il ‘monismo’ imprenditoriale” del quale Marchionne sembra essere un interprete esemplare (non l’unico) nella misura in cui pone come non negoziabili le scelte aziendali di volta in volta operate, cercando di piegare, a suo favore, le regole che contrattazione collettiva e legislazione del lavoro hanno codificato. e la cui modificazione non può essere appannaggio di un solo attore del sistema.

Per queste ragioni l‘ambito dei problemi cui si è accennato merita di essere tenuto in attenta considerazione perché in una situazione ogni giorno più influenzata dalla “convergenza neo-liberale” e in presenza di una crisi di cui ancora non si vedono gli sbocchi, aumenta di continuo il numero di quanti non riescono ormai a garantire le proprie condizioni di lavoro, di professionalità, di sopravvivenza. Sono problemi che, modificando in profondità gli elementi strutturali del nostro sistema economico e sociale, preparano i nuovi assetti della società ridefinendo i rapporti di potere al suo interno. Dal modo in cui questi saranno risolti dipenderà, in larga misura, il “contratto sociale” prossimo futuro. Le vicende che stiamo vivendo mettono infatti in discussione la tenuta stessa del tessuto sociale della nazione che sta subendo pericolose smagliature.

A questo problema Carlo Carboni dedica il suo intervento: La coesione sociale, in cui nota ( p. 229) come in Europa si sia “fatta più forte l’esigenza non solo di una coesione sociale all’interno delle varie nazioni, ma anche l’urgenza di una superiore, in grado di favorire una maggiore integrazione politica – non facile da raggiungere – dei paesi membri dell’Eurozona”. Negli ultimi 20 anni, secondo il sociologo, vi è stata una progressiva destrutturazione e uno sfarinamento culturale di quella società di ceto medio – frutto di un mix lavoro, cittadinanza e consumismo – che si era formata in Italia tra gli anni 70 e 80, catalizzando le aspettative di gran parte della popolazione e prendendosi in carico la società “postclassista” e postindustriale. La veloce trasformazione e differenziazione sociale delle professioni e dei mestieri – prosegue Carboni – spinta dal capitalismo a trazione tecnologica e finanziaria ha reso la società maggiormente plurale – la società liquida di Zygmumt Bauman – favorendo l’affermarsi di una mentalità individualista e autoreferenziale piuttosto che tesa alla coesione e alla solidarietà sociale. “Difficile, perciò, per i governi nazionali realizzare un telaio comune di coesione senza intaccare e deludere molti degli interessi quando si deve decidere, come oggi accade, di riforme strutturali” (pp.230-231). E’ di certo quella indicata una componente, da non trascurare, che concorre insieme alle altre a favorire la “convergenza neo-liberale”. Al tempo stesso il mondo imprenditoriale che di questa convergenza si sente partecipe, sembra sottovalutare i fattori che incidono negativamente sulla coesione sociale e i rischi che ne possono derivare quasi che le scelte aziendali siano delle “variabili indipendenti” che possano prescindere dalla struttura dei bisogni – e dagli interessi di coloro i cui destini direttamente o indirettamente a quelle scelte sono collegati – e non debbano esistere regole che non siano quelle dettate dalla legge del profitto e dai mercati.

 

7. Le questioni di cui si parla ne l’Annuario del Lavoro 2011, suggerirebbero di riportare in modo più stringente, al sistema di relazioni industriali, il discorso intorno al rapporto tra politica ed economia in un mondo mutato che non può comunque trascurare quella “questione sociale” che ha rappresentato, uno degli elementi centrali della società industriale e dei conflitti che hanno contribuito al progresso e alla democratizzazione degli stati nazionali. Esiste oggi una nuova questione sociale che va definita nei suoi connotati fondamentali e affrontata per ritrovare gli equilibri necessari ad una società che voglia ritrovare la strada della ripresa economica e del progresso civile. Per una politica finalizzata a riconquistare i giusti equilibri un sistema efficiente di relazioni industriali rappresenta uno strumento di rilevante importanza.

Le analisi e gli approfondimenti di cui abbiamo dato conto ci è sembrato che costituiscano l’asse portante dell’impianto de l’Annuario del Lavoro 2011. Si tratta, cioè, della parte, più direttamente riferita all’interpretazione – per molti versi convergente – data dai diversi autori dei fenomeni in corso e dell’involuzione in atto nel sistema delle relazioni industriali nel contesto magmatico degli eventi che hanno segnato la vita economica e sociale del paese. Sono questi i testi, inoltre, che affrontano le implicazioni politiche che da quei fenomeni discendono e i possibili esiti. Contribuiscono all’analisi e alla comprensione dei complessi avvenimenti che hanno caratterizzato questo 2011, una serie di scritti qualitativamente apprezzabili aventi per oggetto le organizzazioni sindacali e le organizzazioni del mondo imprenditoriale rappresentative dei diversi settori produttivi.

Un altro anno è trascorso. Gli eventi che si sono succeduti nel corso del 2012 sembrano aver confermato, in una certa misura – sia pure in un contesto politico ben diverso – le conclusioni alle quali si era pervenuti e che il prossimo  l’Annuario sarà chiamato a verificare.

Enzo Bartocci, presidente Fondazione Giacomo Brodolini

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