Sono un milione e 81 mila i dipendenti italiani che nei primi nove mesi del 2021 hanno deciso di lasciare volontariamente il lavoro, un valore cresciuto del 13,8% rispetto al 2019, quando il dato si attestava a quota 950 mila.
Quasi uno su due, dopo aver rassegnato le dimissioni, non ha più un contratto attivo perché è alla ricerca di un`altra occupazione, per aver deciso di avviare un`attività in proprio o per scelte di vita diverse.
Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, con l`indagine “Le dimissioni in Italia tra crisi, ripresa e nuovo lavoro”, basata sui dati delle Comunicazioni Obbligatorie del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, analizza il fenomeno della cessazione volontaria del rapporto di lavoro, che appare trasversale sotto diversi punti di vista.
Il confronto tra i primi tre trimestri del 2019 e del 2021 evidenzia, infatti, che i dimissionari non sono solo giovani, con un basso livello di istruzione e residenti al Nord, ma che c’è un incremento tra i segmenti tradizionalmente meno interessati, in particolare adulti, laureati e tutti i lavori qualificati.
“Il fenomeno delle dimissioni volontarie non è nuovo per la realtà italiana, ma lo è il suo incremento – afferma Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro -.
Capiremo solo nei prossimi mesi la vera portata, soprattutto rispetto alle motivazioni, visto che non è possibile stimare all`interno della quota di lavoratori dimessi e non rioccupati quanti potrebbero aver deciso di avviare un`attività in proprio, essersi occupati irregolarmente o più semplicemente aver deciso di smettere di lavorare. Ancora una volta emerge, tra l`altro, che le maggiori opportunità di rioccupazione riguardano quei profili tecnici e specializzati dove è più alto il divario domanda/offerta, mentre i più penalizzati nella ricollocazione successiva sono i lavoratori a basso tasso di formazione e occupazione. È urgente investire su queste direttrici per adeguare le competenze alla nuova realtà che ci troviamo a vivere nel post-pandemia”.
Quello delle dimissioni volontarie è un fenomeno abbastanza nuovo per una realtà, quale quella italiana, da sempre caratterizzata da bassi livelli di mobilità interna. La cui portata, tuttavia, è prematuro inquadrare come un vero e proprio cambio di passo nell`approccio al lavoro.
A determinare tale crescita contribuisce, in primo luogo, la ripresa occupazionale che offre opportunità anche a chi vuole cambiare lavoro, soprattutto a quei profili tecnici e specializzati, rispetto ai quali le aziende stanno incontrando difficoltà crescenti di reclutamento.
Ma non vanno sottovalutate anche le conseguenze che la crisi ha avuto su molti lavori. Condizioni occupazionali sempre più precarie, riduzione delle retribuzioni, deterioramento delle relazioni lavorative, possono avere inciso su una scelta di vita che, per alcuni, sembra essere stata compiuta in assenza di un`alternativa: il 44,7% delle persone dimesse nei primi sei mesi dell`anno a fine del terzo trimestre 2021 non aveva un contratto di lavoro attivo.
Entrando nel dettaglio, dall’analisi emerge che nelle professioni ai vertici della piramide professionale, tecniche e ad elevata specializzazione, tra 2019 e 2021, il numero dei “dimessi” è cresciuto rispettivamente del 22,4% tra le prime e del 19,4% tra le seconde. La maggioranza lo ha fatto per cambiare lavoro: a fine del terzo trimestre aveva un`altra occupazione il 65,8% dei tecnici e il 64,6% delle professioni ad elevata specializzazione.
Complessivamente questi hanno contribuito al 17,9% delle dimissioni avvenute nei primi nove mesi dell`anno.
Poi ci sono i laureati, tra cui si è registrato l`incremento più elevato di dimissioni (17,7% contro il 12,9% di chi ha un diploma di istruzione secondaria superiore e il 13,3% un titolo inferiore); anche in questo caso la scelta è attribuibile alla transizione verso un`altra occupazione (69,2%);
Nel settore delle costruzioni è avvenuto il 9,7% delle dimissioni, e si è registrato, tra 2019 e 2021, una crescita del 47,1% del fenomeno. L`ottima fase di ripresa che vive il comparto si accompagna infatti non solo all`aumento delle dimensioni delle imprese, ma anche alla difficoltà di recupero di manodopera, innescando meccanismi di concorrenza di cui si stanno avvantaggiando i lavoratori; le attività professionali, scientifiche e tecniche e il comparto sanità e assistenza sociale, dove si registra un incremento significativo del fenomeno (rispettivamente del 20,2% e del 33%), accompagnato da un elevato tasso di ricollocazione dei lavoratori.
Quanto alle professioni operaie ed artigiane, specializzate e non (operai e conduttori impianti), dove non solo si concentra una quota significativa di lavoratori che hanno lasciato l`occupazione (complessivamente il 25,2% del totale), è qui che si registra un incremento di molto superiore alla media, rispettivamente del 21,5% tra gli operai specializzati e 17,5% tra i non specializzati. Anche in questo caso, l`elevata quota di dimessi che risulta occupata a fine del terzo trimestre (57,6% e 62,9%) può essere ricondotta alla spinta del comparto costruzioni ma anche alla positiva fase di ripresa del manifatturiero.
A fronte di chi ha beneficiato dell`accresciuta mobilità, vi è una componente la cui scelta di dimettersi sembrerebbe riconducibile, più che al cambiamento di condizione lavorativa, ad un allontanamento volontario dal lavoro per disaffezione, rifiuto delle condizioni o progetti di vita incompatibili con l`occupazione lasciata.
Difficile individuare quali siano i fattori che concorrono maggiormente a tale decisione, ma la lettura dei dati indica tra le categorie più interessate: le professioni non qualificate dove le dimissioni avvengono in molti casi in assenza di un altro lavoro: solo il 49,2% risulta avere un`altra occupazione dopo tre mesi; il settore del commercio e ricettivo-ristorativo, dove lavorava rispettivamente il 13,4% e il 12,6% dei lavoratori dimessisi nei primi nove mesi del 2021. In tali comparti, non solo il fenomeno risulta stabile (è il caso del commercio) o in riduzione (nelle attività di albergo e ristorazione il numero dei lavoratori dimessisi si è ridotto), ma chi lascia volontariamente l`occupazione, risulta più raramente ricollocato dopo qualche mese. La crisi, e il conseguente deterioramento delle condizioni di lavoro, ha spinto presumibilmente molti a dimettersi, pur in assenza di alternative. Al tempo stesso va ricordato che si tratta di settori ad elevato ricambio occupazionale, spesso di “transizione” per molti giovani alle prime esperienze lavorative.
I lavoratori over 55, dove il numero dei dimessi è cresciuto del 21,5% tra 2019 e 2021, contribuendo al 16,4% del totale. In questa fascia d`età (che rappresenta il 16,4% del totale delle dimissioni), “solo” il 33,7% dopo tre mesi aveva un`occupazione; le donne, categoria in cui le dimissioni si accompagnano, molto più frequentemente che tra gli uomini, ad un allontanamento dalla vita attiva: tra i dimessi nei primi due trimestri del 2021, risulta titolare di un contratto attivo a fine terzo trimestre il 49,1% delle donne contro il 59,4% degli uomini.
tn