Il post pandemia richiede, ormai è noto, un drastico cambio di direzione nell’impostare lo sviluppo economico. La svolta green è una delle poche cose su cui tutti concordano, ma pone sfide ardue, alle imprese come ai sindacati. I quali, osserva Paolo Pirani, segretario generale della Uiltec, sono tutti un po’ in ritardo, ma soprattutto hanno idee differenti su come ricongiungere le ragioni della produzione con quelle del lavoro e del territorio. Maurizio Landini in una intervista al Manifesto, ha rilanciato il ”sindacato di strada”, per ricomporre, innanzi tutto, le frammentazioni che si sono create nel mondo del lavoro, e fra lavoro e società. Per Pirani, tuttavia è una soluzione che non risponde alle esigenze della nostra epoca.
Per quale motivo, Pirani?
La frammentazione del mondo del lavoro è un problema reale, che inizia ben prima della pandemia, inizia con la crisi del ceto medio e delle società occidentali. Oggi, però, assistiamo al fallimento del turbo capitalismo, di un certo mercato senza regole, fallito sia dal punto di vista sociale, sia da quello della produzione e del profitto. E’ in atto un ripensamento: l’esempio è BlackRock, il più grande fondo di investimento globale, che già da tempo ha annunciato di dirottare i propri investimenti su aziende che seguano una precisa direzione di compatibilità tra sviluppo e territorio. Non perché siano stati folgorati sulla via di Damasco, ma perché hanno visto con chiarezza che quella è la sola via anche per il profitto.
Un cambio di paradigma fondamentale, direi.
Appunto. E’ in atto una trasformazione del capitalismo, che si ricollega anche all’innovazione tecnologica. Per il sindacato è indispensabile comprenderla e interpretarla, se vuole inserirsi in questo cambiamento. Io penso che la risposta sia nella partecipazione, ovvero in una gestione dell’impresa su un modello non gerarchico ma condiviso. Mentre Landini ha in mente una sorta di neo movimentismo.
Che cosa intende con neo movimentismo?
Il sindacato di strada non lo vedo diverso da un qualunque movimento, dalla Caritas alle varie associazioni ambientaliste. Va bene su un piano politico, ma dal punto di vista sindacale lo vedo come una perdita di ruolo. C’è, diciamo così, uno smarrimento di analisi rispetto al rapporto tra sviluppo industriale e sviluppo di un’economia compatibile con l’ambiente e con la società. Il lavoro può tornare ad essere centrale solo con un rapporto con la produzione. E questo lo fai nei luoghi di lavoro, non sulla strada. Penso sia necessario puntare a un modello partecipativo nell’azienda, e a un modello orizzontale sul territorio, che è il luogo in cui confrontare le esigenze della produzione e dell’ambiente, e in cui organizzare il mercato del lavoro in tutti i suoi aspetti, dal welfare alla formazione professionale, al collocamento.
Ma anche Landini parla del legame col territorio.
Però occorre assumere una visione partecipativa, non contestativa. In Cgil, al momento, si sta consumando una frattura tra le categorie e il territorio. Faccio due esempi. Il petrolchimico di Bari, che il sindaco e la confederazione vogliono chiudere perché inquina, mentre la categoria no. L’altro esempio è Civitavecchia, dove la Cgil dice no alla trasformazione della centrale da carbone a ciclo integrale a gas, perché vuole solo eolico. Ecco: se non leghi la fabbrica al territorio, se non dai il senso di un cambiamento del modello di sviluppo che lega industria e ambiente, fine ti trovi stretto in queste contraddizioni, ti trovi di fronte a queste pulsioni anti industriali di cui la più eclatante è l’Ilva di Taranto.
La divaricazione tra le esigenze del lavoro e quelle ambientali sono antiche, non di oggi. Da questo punto di vista c’è forse un ritardo di analisi ed elaborazione che riguarda tutto il sindacato, non crede?
E’ vero, c’è un ritardo di tutto il sindacato. Ma pensare di colmarlo con il sindacato di strada è una scorciatoia romantica: che forse infiamma i cuori ma non fa i conti con una realtà che rischia di essere assai differente da quella attesa.
Nunzia Penelope