La domanda da porsi rispetto all’ipotesi che Matteo Renzi rientri nel Partito democratico è molto semplice: quali e quanti sarebbero i benefici del suo ritorno a casa (si fa per dire) e quali e quanti i costi?
Dopo tutto quello che è successo, dopo tutto quello che ha fatto Renzi contro il Pd, a cominciare dalla debacle del 2018 fino alla scissione che ha fatto nascere Italia viva, ossia un partitino sostanzialmente inesistente ma capace di azioni di disturbo una dopo all’altra, dopo i suoi cambi di casacca passando da un voto favorevole alla destra a una dichiarazione (anzi cento) contro il suo ex partito, dopo il suo tentativo miseramente fallito di far nascere un fantomatico Centro con Carlo Calenda, con cui ha subito litigato e rotto qualsiasi rapporto, Centro che nelle sue (sue di Renzi) intenzioni avrebbe dovuto togliere voti proprio al Pd, dopo che anche la sua creaturina si è spaccata, dopo le sue consulenze milionarie con l’Arabia Saudita di bin Salman (un personaggio che di democratico non ha nulla e che anzi è stato capace anche di far uccidere un giornalista scomodo in Turchia), dopo tutto questo e molto altro, ecco che Renzi bussa alla porta del Pd e con tono serafico chiede ospitalità sostenendo che senza di lui vincerebbe di nuovo la Meloni mentre con lui…
Se non fosse una tragedia sarebbe una farsa, anzi è una farsa. Quanti voti potrebbe portare Renzi al Pd? Quasi nessuno, ormai il personaggio è totalmente screditato, nessuno crede più alle sue sparate, nessuno ha più fiducia in lui. Soprattutto nessuno ha più bisogno di lui, tantomeno il Pd.
Eppure nel partito di Elly Schlein si discute seriamente del ritorno del cosiddetto figliol prodigo, che però non è un figlio e tanto meno prodigo. Certo, per sconfiggere la destra alle prossime elezioni politiche servirà unire le forze, costruire cioè il fantomatico “campo largo”. Che però deve avere un limite, non può essere infinito, non può comprendere tutto e il contrario di tutto. Avrà bisogno di un progetto condiviso, di qualche idea in comune, di un minimo di coerenza politica, di dirigenti capaci appunto di dirigere e soprattutto di elettori convinti di votare per un’alleanza che non solo vinca ma che sia in grado di reggere alla successiva prova del governo. Non si tratta di due obiettivi facili da raggiungere, ma sicuramente non è con Renzi (e neanche con Calenda, che cambia idea ogni minuto) che si possono raggiungere. Basta ripensare a quel che ha fatto negli anni scorsi l’ex segretario del Pd quando già aveva creato Italia viva, facendo cadere il governo rosso verde per aprire la strada a Mario Draghi. Il quale Draghi ha anche funzionato per qualche mese, ma poi ha dimostrato che la politica non è il suo mestiere. Non a caso dopo di lui è arrivata Meloni con la sua destra che più destra non si può (escluso Tajani che invece si sta dimostrando una risorsa per la democrazia, vedi per esempio lo ius scholae).
E allora ripetiamo le domande iniziali per rispondere che benefici dal ritorno di Renzi nel Pd non se ne vedono, mentre i costi sarebbero altissimi: pochissimi voti e un’incessante fibrillazione, fino magari ad arrivare allo sfascio dell’eventuale governo. Solo per fare due esempi, come farebbe Schlein a giustificare le conferenze arabe di Renzi nel momento in cui lui fosse stato eletto in Parlamento col suo Partito? E come potrebbe la leader democratica gestire l’odio evidente che esiste tra lo stesso Renzi e Giuseppe Conte che sarebbero costretti a mettersi insieme? Per non parlare delle questioni di merito, economiche e sociali sulle quali le spaccature sarebbero all’ordine del giorno.
Insomma, qui non si sta facendo un gioco di società, una sorta di Monopoli o di Risiko in cui vince chi riesce a costruire più case o occupa più territori. Qui si sta parlando del futuro del Paese che si spera possa uscire il prima possibile dalla tenaglia in cui l’ha chiuso la destra al governo. E per uscirne, non serve Renzi, anzi lui è meglio perderlo che ritrovarlo.
Riccardo Barenghi