Periodicamente torna il tormentone Confindustria sì, Confindustria no. Basta che la confederazione degli industriali muova una critica non di maniera al potere costituito e immediatamente si alza qualcuno, spesso un incompetente, a dire che Confindustria deve chiudere, che tutti devono uscire da Confindustria, che si tratta di un’organizzazione malata, specchio fedele dell’odiata (da chi muove queste osservazioni) Cgil, quindi da abbattere. E anche in questi giorni è ripartito il solito refrain. E’ bastato che Emma Marcegaglia abbia criticato, stavolta finalmente in modo chiaro, la politica del governo, o meglio la sua non politica, che tutti i pasdaran sono partiti in quarta per sostenere la necessità di punire in qualche modo la disobbediente o indignata che dir si voglia.
Tanto più la campagna ha preso fuoco dopo le dichiarazioni di Marchionne, con le valigie in mano pronto a lasciare la Confindustria. Tutti hanno preconizzato un esodo di massa dalla confederazione, molti hanno affermato che adesso le aziende pubbliche devono seguire l’esempio di Corso Marconi. Renato Brunetta, che è ministro della Repubblica, ha detto che nella prossima manovra saranno tolti i duecento milioni che queste aziende, in mano al ministero dell’Economia, versano ogni anno come contributi nelle casse della confederazione.
Come se aderire o meno a Confindustria fosse un affare politico e non l’atto conclusivo di un ragionamento basato per prima cosa sugli interessi delle parti. Un’azienda, quale essa sia, quali che siano le sue dimensioni, aderisce a un’associazione di categoria, e quindi tramite questa alla confederazione, non perché questa sostiene una precisa posizione politica o partitica, ma perché reputa che possa difendere bene i suoi interessi, anche quelli pratici, di bottega: non c’è bisogno di volare alto per prendere una decisione del genere. E proprio quando un’associazione prende invece a sostenere una posizione politica il legame si deve allentare, allora è bene prendere le distanze. Perché le decisioni di quella associazione da quel momento in poi possono essere deviate dall’interesse politico, perdere di vista l’interesse economico.
Luigi Abete quando era presidente di Confindustria lanciò la teoria delle tre A: per lui Confindustria doveva essere autonoma, apartitica, agovernativa. Non apolitica perché fare politica in senso nobile è la vera essenza di un’associazione importante, perché fa politica d’impresa, fa politica culturale. Ma il senso era preciso, le associazioni devono essere lontane dai partiti, mai mischiare le cose. E la storia di Confindustria è altrettanto precisa, perché ogni volta che la confederazione è scesa in piazza, ha preso una posizione partitica, ha sempre sbagliato e ha poi pagato alti prezzi. L’esempio più classico risale agli anni sessanta, quando la Confindustria di Alighiero De Micheli e poi di Furio Cicogna lottò contro il centrosinistra, fondò la Confintesa con artigiani e agricoltori, presentò perfino delle liste alle elezioni politiche e tutto poi naufragò, mettendo quella volta sì in serio pericolo di sopravvivenza la confederazione.
Emma Marcegaglia non ha fatto nulla di ciò. Si è limitata nel corso degli anni a chiedere al governo di governare, fare le riforme, intervenire quando e dove doveva. Lo ha detto con toni pacati all’inizio, che si sono fatti via via sempre più concitati mentre la situazione economica si aggravava e quelle riforme e quegli interventi diventavano sempre più necessari. Ma questo è bastato perché tutti i politici, di una certa parte, naturalmente, ne chiedessero la testa.
Nessuno valuta il ruolo fondamentale che hanno le parti sociali nella gestione del paese, il ruolo importante che queste rappresentanze hanno nel tessuto della società, di come siano fondamentali per costruire la pace sociale. Lo ha riconosciuto perfino la severissima Banca Centrale Europea: nella ormai celebre lettera di agosto, piena di critiche alla gestione della politica economica da parte del Governo, l’unica nota positiva rilevata dai banchieri centrali europei e’ l’accordo interconfererale del 28 giugno, di cui proprio la Confindustria e’ stata convinta promotrice. Ma mentre l’Europa riconosce alle parti sociali i loro meriti, in Italia, invece, ci si limita beceramente a chiedere che Confindustria (e i sindacati, anche se nessuno lo dice, ma sono lì dietro l’angolo) esca di scena. Questa non è visione dello Stato, è ottusità politica, nemmeno ragionamento di parte. Siamo davvero alla fine dell’impero, i barbari però non sono alle porte, sono già nelle stanze del potere.
Massimo Mascini