Nonostante l’ermellino e i benefits è proprio un mestieraccio, quello del giudice costituzionale. Si è appena conclusa, tra roboanti polemiche, la vicenda della sentenza sul blocco delle pensioni, ed ecco che subito si presenta sul percorso dell’Alta Corte un altro macigno ad elevata densità politico-economica, quello del blocco pluriennale delle retribuzioni dei pubblici dipendenti. Qui però non c’è di mezzo il governo Monti, né la professoressa Fornero. Questa volta all’origine di tutto c’è il governo Berlusconi e il ministro Tremonti. Il quale, tra la primavera e l’estate del 2010, avendo quasi esaurito i magheggi della finanza creativa, non trovava altro modo, per contribuire ad arginare la frana dei conti pubblici, se non quello di bloccare per tre anni le retribuzioni dei pubblici dipendenti. Non sarà inutile ricordare che la vicenda si inseriva in un contesto di forte battage ostile ai pubblici dipendenti, descritti come fannulloni e privilegiati. Di fatto, le retribuzioni dei lavoratori pubblici erano effettivamente cresciute, tra la fine degli anni novanta e la seconda metà del primo decennio del secolo, con una dinamica un po’ superiore, in media, a quella del settore privato, così che aveva buon gioco chi descriveva il blocco come una sorta di meritato digiuno imposto ai pubblici dipendenti, che avevano inoltre, a differenza dei lavoratori del privato, maggiori garanzie quanto al salario e alla sicurezza del posto di lavoro.
Il fatto è, però, che col passare del tempo quello che avrebbe dovuto essere una passeggera cura dimagrante è diventata un digiuno da fachiri, e, di proroga in proroga, il blocco della contrattazione e dei salari è proseguito anno dopo anno, e non se ne vede ancora la conclusione. Anzi, diversi segnali contribuiscono ad avvolgere nella nebbia la data in cui potrà riprendere un confronto che conduca alla fine del lungo blocco, e tra essi soprattutto il fatto che quasi tutti i provvedimenti riguardanti il pubblico impiego emanati dall’inizio di questo decennio a oggi tendono a ridimensionare pesantemente l’ambito del dialogo sociale e a far riconquistare spazio alla determinazione unilaterale delle condizioni di lavoro.
E’ probabilmente soprattutto per questa ragione che, a un certo punto, qualche sindacato ha perso la pazienza e si è rivolto alla magistratura. La quale, come da copione, ha scaricato la patata bollente sulla Corte, facendo riferimento, com’è ovvio, principalmente al disposto dell’art. 36 Cost., circa il diritto di ogni lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurargli una vita “libera e dignitosa”. Ma, oltre a ciò, i ricorrenti facevano riferimento anche all’articolo 3 Cost, obiettando non solo la diversità di trattamento rispetto ai lavoratori privati, ma anche un altro fatto verificatosi nel frattempo, e per diversi aspetti assai più inquietante dal punto di vista del principio di eguaglianza. Come nella fattoria di Orwell infatti, se tutti i dipendenti pubblici sono uguali, ve ne sono alcuni più uguali degli altri: il che ha fatto sì che, con specifici provvedimenti, diversi settori della pubblica amministrazione, come le forze armate, i prefetti, gli ambasciatori e, almeno in parte la scuola , siano riusciti a svincolarsi dal blocco retributivo. A creare vie di fuga ha peraltro contribuito la stessa Corte, con una sentenza del 2012 riguardante appunto i magistrati, a proposito della quale l’ex giudice costituzionale Sabino Cassese ha commentato: “delirio di onnipotenza dei magistrati, che pure sono i dipendenti pubblici meglio retribuiti. Sospetto che qualcuno della Corte abbia pensato anche al proprio stipendio…”.
Insomma, quando la questione arriva davanti alla Corte appare abbastanza evidente, innanzitutto, che le ragioni di emergenza circa la tenuta dei conti pubblici si scaricano soprattutto su coloro che, non essendo abbastanza forti nel gioco dei gruppi di pressione, non sono in grado di far valere le loro ragioni a differenza di altre categorie per le quali vale invece la regola inversa. Una seconda considerazione nasce dalla durata, ormai quinquennale, equivalente quasi a due rinnovi contrattuali, del blocco dei salari. Leggendo recenti elaborazioni Aran su dati Istat, si evidenzia che, nel periodo 2008/2015 (cioè dal primo anno di crisi, in cui ancora la contrattazione pubblica era in vita, a oggi), l’inflazione è cresciuta del 12.8 per cento, le retribuzioni del settore privato del 18,9, e quelle del settore pubblico del 9.5: la metà rispetto ai privati, e ben meno di un’inflazione che, dobbiamo dire in questo caso per fortuna, si è mantenuta abbastanza contenuta. In sostanza, il vantaggio delle retribuzioni pubbliche accumulato nei primi anni del secolo si è esaurito, ed è lecito chiedersi che fine abbia fatto, in particolare per le fasce retributive inferiori, il dettato costituzionale dell’art. 36. La Corte stessa, peraltro, nella sentenza n.310/2013, ha ribadito il carattere “transeunte e temporalmente limitato” dei sacrifici richiesti. Va aggiunto, poi, che qualora il blocco per legge della contrattazione dovesse proseguire, viene da chiedersi se non venga messo in discussione perfino il primo comma dell’art. 39 Cost, quello sulla libertà sindacale: si sta verificando infatti un evento assai grave, la proibizione protratta per legge al sindacato di svolgere l’attività per cui è nato, e addirittura di sedersi al tavolo delle trattative.
Si può dunque immaginare che la Corte finisca per dare ragione ai sindacati, ripetendo la sentenza sulle pensioni? Nessuno può ovviamente saperlo. In realtà il clima è sicuramente mutato, e le polemiche dei giorni scorsi non possono non aver lasciato il segno. Un sintomo ne è il fatto che l’Avvocatura dello Stato sembra essersi improvvisamente risvegliata. Non è chiaro se l’enorme cifra che l’Avvocatura ha prospettato come derivante da un’eventuale sentenza favorevole ai lavoratori (35 miliardi) sia gonfiata, come sostengono i sindacati. Certamente improbabili sono invece altre argomentazioni contenute nel documento dell’Avvocatura, come quella secondo cui l’attività contrattuale sarebbe in questi anni proseguita nonostante il blocco. Basta dare un’occhiata al sito dell’Aran per constatare il deserto dell’attività contrattuale, nazionale e in pratica anche decentrata: simili argomentazioni sono semmai il sintomo di come questa volta l’esecutivo si stia attrezzando per tempo per bloccare un’emorragia di risorse che, quale che ne sia l’importo, sarebbe comunque difficilmente sostenibile nell’attuale congiuntura.
Il problema, al fondo, resta tuttavia un altro. E’mai possibile che nodi di questa portata economica, politica ed istituzionale, debbano essere sciolti dalla magistratura? E’mai possibile che, di fronte a un tema di così rilevante importanza come quello del lavoro dei dipendenti pubblici, e delle ricadute che esso esercita sulla vita del paese, il governo non senta il dovere di convocare, seguendo le regole, le loro rappresentanze, e, dopo aver illustrato gli stringenti vincoli di finanza pubblica che sovrastano il negoziato, verifichi con loro i tempi e i modi per riaprire un confronto certamente difficile, ma altrettanto certamente non impossibile, se appena si ricominciasse, ad esempio, a pensare seriamente alla revisione della spesa?
Cosa deve succedere di straordinario perché il datore di lavoro pubblico si comporti finalmente come un leale “padrone”?
Di Mario Ricciardi