Vincenzo Spera, presidente di Assomusica, al Diario del lavoro fa il punto sulle conseguenze che l’emergenza coronavirus sta avendo sul settore della musica dal vivo. E afferma: “anche quando l’emergenza sarà finita, di colpo non finirà la paura delle persone”
Spera, quale sono le conseguenze il coronavirus avrà sul settore della musica dal vivo?
È ancora presto per valutare le conseguenze che questa emergenza avrà su tutto il settore. Prima di tutto perché siamo ancora in una fase embrionale della vicenda. Poi perché una mappatura di tutto il nostro comparto è molto difficile da fare, visto che c’è molto lavoro a chiamata.
Al momento può darci dei numeri?
Per ora si stima una perdita di 10,5 milioni per i soli spettacoli di musica, e la ricaduta che ci sarà sulle città che avrebbero dovuto ospitare gli eventi sarà di almeno 20 milioni.
Sul fronte occupazionale quali potranno essere gli effetti negativi?
Anche qui non è facile dirlo. Per un concerto di piccole dimensioni sono impiegati un centinaio di persone, per quelli più grandi, negli stadi per intenderci, anche un migliaio. Come detto molti addetti sono a chiamata, dunque non si può fare una stima esatta. Tuttavia i lavoratori stabilmente occupati sono all’incirca 15mila, e non sono pochi.
Quali strumenti pensa che dovrebbero essere messi in campo?
Chi lavoro nella musica dal vivo non ha le stesse tutele di altri settori. Bisognerebbe pensare a una forma di cassa integrazione per i lavoratori e forme di sostegno, come decontribuzioni e aiuti, per le imprese.
Qual è la sua opinione sulla vicenda?
Penso che la situazione non cesserà molto rapidamente. Nel senso che anche quando si dichiarerà chiusa l’emergenza, quando finirà la paura delle persone e ritornerà la voglia di andare a un concerto di musica? Naturalmente è una cosa che non si può prevedere. Ma già ora c’è uno scollamento tra le parole e la realtà dei fatti.
In che modo?
So di due fornitori, che non operano nel settore di mia competenza, che dovevano andare in Francia e Spagna. Entrambi sono dovuti tornare indietro perché, una volta entrati in quei paesi, poi avrebbero dovuto stare in quarantena. Dunque Shengen è valido a parole, ma nei fatti le frontiere per noi sono chiuse.
Tommaso Nutarelli