Concludendo il suo percorso congressuale, nei prossimi giorni la Cgil dovrà prendere delle decisioni molto importanti per sé stessa e per le persone che rappresenta, penso anche per il Paese.
Una base solida sta nel documento “Il lavoro è”, che ha ottenuto un vastissimo consenso nelle votazioni che si sono tenute nelle assemblee di base.
Un’idea burocratica dell’organizzazione ci porterebbe a dire che il lavoro è compiuto, abbiamo fatto la discussione e la conta, non ci rimane che “trovare la quadra” sugli assetti organizzativi.
Credo invece che il lavoro debba proseguire, nel congresso e dopo, almeno per due ordini di ragioni. La prima riguarda l’evoluzione del quadro politico e sociale di questi mesi, che sta offrendo nuovi e preoccupanti elementi su cui riflettere. La seconda ragione sta nella stessa struttura del documento congressuale che essendo un materiale “sintetico” e “di sintesi”, lascia aperti, in certi casi volutamente, margini per una ulteriore riflessione.
Vorrei quindi richiamare alcuni elementi che ritengo esemplificativi di come, pur partendo da un documento congressuale ampiamente condiviso, le opinioni e le sensibilità, legate a diverse storie personali e collettive, sono certamente influenti sul modo con cui una nuova stagione sindacale verrà interpretata. Come sempre è stato, e come sarà.
Ruolo e profilo confederale del sindacato.
Mai come ora la funzione ed il profilo confederale del sindacato italiano, che rappresenta la peculiarità fondamentale della sua identità, sono messe in discussione, in particolare da parte dei pensieri politici al momento prevalenti, ma anche dai processi più strutturali, che agiscono sulle dinamiche sociali.
Ritengo che a fronte di queste sfide siano possibili almeno tre sbocchi fra loro radicalmente alternativi.
Il primo è cedere alle spinte che inducono il sindacato a ricollocarsi all’interno di un perimetro più ristretto, quello della rappresentanza delle singole soggettività del lavoro, nella dimensione nazionale e aziendale. Un sindacato tendenzialmente sempre più corporativo e aziendalista.
La seconda è la strada opposta: rispetto alla crisi della rappresentanza politica del lavoro la Cgil deve assumere una funzione suppletiva di rappresentanza, individuando un campo di alleanze prioritario all’interno dell’associazionismo e dei movimenti di varia natura. Con una pratica che sempre meno poggerebbe sulle dinamiche contrattuali ma agirebbe prevalentemente su campagne fortemente politiche e identitarie e sull’utilizzo sistematico di strumenti di azione politica che in passato non hanno mai rappresentato la sostanza dell’azione sindacale, come quello referendario o la via giurisdizionale.
Penso che queste “schematiche polarità” non solo sono sbagliate ma ci porterebbero su un terreno nel quale altri, i sindacati autonomi e di base, avrebbero più capacità di muoversi, senza il problema di fare i conti con la loro identità e con la loro storia.
Entrambi questi scenari non solo ci vedrebbero indeboliti ma nella prospettiva non contemplano l’esistenza stessa di un sindacato come la Cgil.
Ritengo invece che, volendo ragionare sulla prospettiva, sia utile partire dai punti di forza, dalle ragioni per cui il sindacato confederale italiano, con tutte le sue difficoltà, in questi anni ha saputo reggere meglio degli altri sindacati europei l’impatto con i processi di trasformazione e con la crisi.
È quindi vitale salvaguardare le proprie peculiarità, di sindacato che ha nella confederalità, articolata in azione contrattuale, confederale e di categoria, nella presenza sul territorio, anche attraverso una rete di servizi, e in una rappresentanza generale dei pensionati, gli elementi essenziali.
Partendo da qui è bene interrogarsi su come saper dare risposte nuove e più efficaci a un mondo del lavoro diverso e a problemi nuovi. E su questo non possiamo pensare che alla sfida della progressiva individualizzazione e frammentazione del lavoro, ai rischi ed alle opportunità che le trasformazioni tecnologiche propongono, in particolare alle nuove generazioni, si possa rispondere senza immaginare nuovi strumenti di rappresentanza, di partecipazione e di tutela, da ricercare non solo nei luoghi di lavoro, ma anche nel territorio e, se vogliamo, anche nella rete. Strumenti nuovi ma anche ripensandone alcuni già esistenti, come la bilateralità, il welfare contrattuale e la contrattazione territoriale.
La pratica sindacale, fra partecipazione e conflitto.
Il fatto che una parte significativa della politica, ora dominante, neghi il riconoscimento di un ruolo generale alla rappresentanza sociale, rafforza l’esigenza che le parti sociali sviluppino ancor più, e con più decisione, il loro reciproco ruolo, in particolare sulle politiche di sviluppo per il Paese, nell’ambito di un sistema avanzato di relazioni sindacali poggiato sul confronto e sul metodo partecipativo.
In un’altra epoca e in un altro contesto, Luciano Lama definì qualcosa di simile il “Patto fra i produttori”.
Il lavoro fatto in questi anni, dal Testo unico sulla rappresentanza ai diversi accordi sulle relazioni sindacali realizzati fra le tre confederazioni e le principali associazioni delle imprese, non sono un approdo finale di un percorso ma costituiscono degli elementi decisivi da cui partire, con coerenza e senza tentennamenti.
Le stesse proposte che nascono dall’autonoma elaborazione della Cgil, come il “Piano del lavoro”, o vengono concepite come un contributo da offrire ad una elaborazione comune all’interno di una rete di alleanze e di interlocuzioni o sono solo sterili enunciazioni, anche se di buon livello analitico e intellettuale.
Rappresentanza, funzione e insediamento sociale
Le trasformazioni e la crescente precarietà hanno giustamente sollecitato la Cgil a rafforzare la sua attenzione verso quella parte del mondo del lavoro che vede con preoccupazione e vive concretamente le ricadute negative di questo processo, in gran parte indotto dalla globalizzazione dei mercati e dall’innovazione digitale.
Ed in questa direzione sono andate molte iniziative come quelle sugli appalti e il caporalato, o più in generale sulla “Carte dei diritti”.
Dobbiamo però evitare di immaginarci come il sindacato delle marginalità, dei “perdenti della globalizzazione”. Sarebbe un’idea deleteria, che fra l’altro non appartiene alla storia della Cgil. Noi siamo e dobbiamo continuare ad essere il sindacato generale dei lavoratori, che unisce tutto il mondo del lavoro. E se, come è giusto che sia, la nostra preoccupazione è quella di partire da chi più ha bisogno, dobbiamo essere consapevoli che se vogliamo tutelare gli ultimi, dobbiamo essere forti anche in quella parte del mondo del lavoro che esprime competenze professionali, conoscenza dell’organizzazione del lavoro e del ciclo produttivo, capacità di presidio e di governo dei sistemi.
Dobbiamo affermare un’idea alta del lavoro e considerare centrale il riconoscimento della sua dignità. Il lavoro, e la sua rappresentanza, come “classe dirigente” del Paese, evitando di rinchiuderci in un angolo culturalmente minoritario e residuale in cui molti vorrebbero metterci e nel quale forse anche qualcuno di noi vorrebbe stare.
Su questo terreno non si può arretrare rassegnandosi ad un’“egemonia” politica e culturale conservatrice che si esercita sul modello di sviluppo economico, ma anche su quello sociale e civile.
Più in generale non dobbiamo rinunciare a pensare al sindacato dei lavoratori come una “grande istituzione democratica” del Paese, come lo è sempre stato nella sua storia, dalla liberazione alla ricostruzione del Paese, dalle lotte per i diritti sociali e del lavoro degli anni 60-70, al contributo dato per isolare e sconfiggere il terrorismo negli anni di piombo. Con la sua capacità di assumersi responsabilità rilevanti, a volte anche impopolari, come con la “linea dell’Eur” alla fine degli anni ‘70, o nella crisi degli anni ’90, con le scelte che ci hanno consentito di vincere la sfida continentale.
Non dobbiamo quindi smarrire il senso e l’essenza della nostra storia.
Unità del sindacato
Il documento congressuale della Cgil nelle sue ultime pagine volutamente lascia aperto ad ulteriori riflessioni e proposte il capitolo dell’unità sindacale. Sarebbe utile riempire questo capitolo proponendo, a noi stessi e agli altri, una sfida ambiziosa e di alto significato, come quella di lavorare per “una fase costituente per un nuovo sindacalismo confederale”, imperniata su tre elementi distintivi delle nostre storie plurali: confederalità, democrazia e partecipazione. Un progetto alternativo ad un’idea velleitaria e demagogica di democrazia diretta e, al contempo, ad un consociativismo subalterno e autoreferenziale.
Un processo che non potrebbe che partire dalla consapevolezza e dalla volontà dei gruppi dirigenti, ma che dovrebbe poi alimentarsi e vivere nella partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici. Un processo che non si esaurisca in una sommatoria dell’esistente ma che abbia la forza di pensare ad un nuovo progetto comune e che trasmetta questa tensione ad un mondo del lavoro che si aspetta uno scatto in avanti, un messaggio forte, che rigeneri fiducia e spirito di militanza, soprattutto fra i giovani.
Vi sono oggi le condizioni per imboccare questa strada? Forse ancora no ma alcuni tasselli importanti si sono già composti, sia sul piano storico-politico, sia su quello più propriamente sindacale.
Questo non vuol dire che non vi siano più le differenze, ma queste non rispondono più a steccati ideologici e stanno nella pratica e nella cultura sedimentata prevalentemente sul piano programmatico.
Inoltre, in questi anni sono maturati importanti avanzamenti nelle elaborazioni unitarie e nelle intese sottoscritte, in particolare il Testo unico sulla rappresentanza e le intese interconfederali sulle relazioni sindacali, che su alcuni aspetti rilevanti, e in passato divaricanti, come i temi della partecipazione, della democrazia e della rappresentanza, hanno permesso di individuare punti di convergenza vera da capitalizzare come elementi costituenti per un percorso futuro.
Sindacato e politica
Per un sindacato come quello italiano, al pari di tutti i sindacati al mondo che si collocano nella tradizione del pensiero popolare e socialista, il rapporto con la rappresentazione politica del mondo del lavoro esiste ed è condizionante.
La crisi della sinistra, in Italia e in tutto il mondo occidentale, sospinta dalle paure xenofobe, dai populismi e dai sovranismi di vario tipo, oggettivamente “spiazzano” le organizzazioni sindacali, a maggior ragione in Italia, per la natura fortemente confederale della loro funzione.
Gli stessi comportamenti elettorali della base sindacale evidenziano una marcata mutazione delle scelte e delle affinità, a partire dal rapporto tra gli iscritti alla Cgil ed i partiti politici della sinistra.
Sono diverse le ragioni per cui ciò sta avvenendo.
Questo fenomeno il più delle volte lo si fa discendere da un progressivo allontanamento della sinistra dai temi del lavoro e dal suo insediamento. Cosa verissima, a partire da alcune vicende significative che hanno lasciato ferite non facilmente rimarginabili, come la legge Fornero, la vicenda dell’articolo 18 e la “buona scuola”.
Però vi è anche altro, a partire dal fatto che il tema della sicurezza, immediatamente correlato al fenomeno migratorio, incide ed orienta le scelte politiche al di fuori del perimetro della sinistra anche di una parte consistente degli iscritti al sindacato, Cgil compresa.
Le vicende della sinistra politica del nostro Paese hanno riflessi non solo sull’attività concreta dei sindacati, ma anche sulla loro stessa soggettività. Il sindacalismo confederale italiano, con la sua storia e la sua identità, vive all’interno di un “campo ideale e valoriale” che coinvolge l’insieme della società e tutte le sue dimensioni. Al di fuori di questo orizzonte esso si snatura e alla lunga esaurisce la sua funzione. Sarebbe pericoloso il prevalere di un relativismo ideale e di un pragmatismo politico che ci rinchiuda nel “particulare” e nel valutare la singola risposta ad un problema, o ad una piattaforma, al di fuori di una visione più generale e di una idea relazionale e di comunità.
Una rappresentanza sociale del lavoro forte, e fortemente ancorata ai valori solidaristici e comunitari, non può esistere senza una altrettanto forte rappresentanza politica di quei valori e di quell’orizzonte ideale.
Non mi riferisco ad una rappresentazione valoriale statica, “ottocentesca” direbbe qualcuno, ma a quella che trova anche nelle ragioni di oggi le coordinate che danno continuità e senso ad una storia. Mi riferisco ad esempio a come combinare in forme nuove il binomio dimensione collettiva e libertà individuali, il tema dei diritti universali e il riconoscimento delle diversità, il tema dell’uguaglianza e del merito, la questione del possesso e dell’utilizzo dei “data base”.
Su queste cose il pensiero di Bruno Trentin può ancora dirci molto.
Quindi è decisivo come il campo progressista del nostro Paese si possa ricomporre, possa recuperare forza e credibilità, ripensando radicalmente il suo profilo identitario, programmatico ed il suo insediamento sociale, nelle forme che sarà la politica stessa a determinare. Dando un segno di discontinuità netta rispetto alle scelte di questi anni.
Ma credo anche che il sindacato, la Cgil in particolare, non possa limitarsi ad auspicare questa evoluzione, da spettatore passivo, ma debba giocare un ruolo in questa partita. Soprattutto ora che, dopo la sciagurata fase della disintermediazione e la débacle elettorale, a sinistra una discussione si è aperta ed un processo nuovo potrebbe avviarsi.
Non certo per sostituirsi ad altri nelle loro funzioni ma per sollecitare ed orientare questo processo, in modo autonomo, anche critico e polemico.
Inoltre, da un po’ di tempo anche in Cgil sembra ormai un disvalore la doppia militanza, quella politica e quella sindacale e sono in molti a marcare con orgoglio il fatto di non avere in tasca alcuna tessere di partito. Sono consapevole che non è facile oggi trovare formazioni politiche in cui impegnarsi, con convinzione e motivazione. E non si trova in condizioni ottimali neanche chi, da iscritto al Partito, ha trovato le ragioni principali della sua militanza politica più nel voler contrastare, da dentro, una deriva che riteneva pericolosa anziché partecipare con passione ad un progetto condiviso.
Non sono quindi in discussione le sensibilità, le scelte o i travagli di ciascuno di noi. Credo però sia importante riflettere sulla politica e sulla sinistra, sulla necessità di ricostruire un campo di forze progressiste in grado di garantire una democrazia vera, una comunità coesa e civile, una società più giusta e più equa, nel quale possano riconoscersi ed avere rappresentanza politica anche gli interessi delle classi sociali più deboli.
Dico questo anche perché, vorrei sbagliarmi, il vento dell’antipolitica inizia a spirare troppo vicino a noi, alimentato, magari inconsapevolmente, anche quando si inizia a declinare in modo inappropriato il tema dell’autonomia del sindacato dalla politica. Che invece è una cosa seria di cui dobbiamo essere gelosi.
Nel rapporto tra la sinistra politica e il sindacato sino ad ora hanno prevalso i picconatori. Credo sia arrivato il momento di far entrare nel cantiere i progetti e le opere di ricostruzione, visto che all’orizzonte si stanno materializzando ben altre, angoscianti, minacce.
In conclusione, e tornando all’incipit. Le questioni e le valutazioni che ho richiamato, ritengo stiano tutte, a pieno titolo, dentro il perimetro definito dal documento congressuale della Cgil. Ma sono altrettanto convinto che su questi ed altri temi ci siano opinioni, soggettività e sensibilità diverse, di cui tener conto, anche nel momento in cui ci si appresta a fare delle scelte complessive sul gruppo dirigente, pur auspicando e credendo possibile un approdo ed una sintesi ampiamente unitaria che ci consegnerà una Cgil ancora più forte e autorevole.
Questo per amore della ricchezza culturale della nostra organizzazione, per il rispetto nei confronti dei diversi percorsi che hanno fatto grande la nostra storia, e per la stima, sincera, nei confronti di tutti i compagni di cui stiamo parlando in questi giorni.
Roberto Ghiselli