Sembra sia partito finalmente nella giusta maniera il confronto tra governo e parti sociali. Dopo qualche falso avvio nei primi incontri, che avevano fatto temere un fallimento, più o meno mascherato, la trattativa ha acquisito dati di concretezza molto positivi. I temi principali per una corretta gestione del mercato del lavoro, flessibilità in entrata e ammortizzatori sociali, sono stati esaminati con attenzione e sono emerse prime convergenze interessanti. Tutti infatti d’accordo che si entrerà nel mondo del lavoro soprattutto con un contratto di apprendistato, come anche sul’opportunità di individuare degli incentivi che consiglino la trasformazione di questi contratti in rapporti a tempo indeterminato alla fine dei tre anni. Anche sul tema degli ammortizzatori stanno emergendo convergenze, ma tutti sono ormai d’accordo sulla necessità di procrastinare di un paio d’anni l’applicazione delle misure che saranno individuate per non sguarnirsi di possibili strumenti per combattere la disoccupazione in questi tristi tempi di recessione.
Sono questi i temi caldi per la gestione del mercato del lavoro e l’attitudine delle parti a discutere sembra un fatto molto positivo. Come è stato positivo, per l’esito finale della trattativa, che sia stato rinviato all’ultima fase di confronto il tema della flessibilità in uscita. Che di questo tema si debba parlare è ormai fuori dubbio. Lo stesso Monti, ma anche il ministro del Lavoro, più volte hanno insistito in tal senso chiarendo che ci saranno nuove regole. Che poi queste saranno profonde e incisive, è un altro discorso.
Nessuno crede fino in fondo che una modifica dell’articolo 18 sia la chiave di volta perché risalga la competitività e accorrano investimenti esteri nel nostro paese. Gli investitori esteri sono demotivati da ben altro che dall’indissolubilità del rapporto di lavoro. Pesano l’ingerenza della criminalità organizzata, la diffusione della corruzione, il peso della burocrazia soffocante, la carenza delle infrastrutture, l’assenza di veri rapporti tra il mondo della produzione e i centri di ricerca. Ma Monti ha un compito preciso, quello di dimostrare che c’è stata una forte cesura tra il precedente governo e quello attuale, che il clima generale del paese è cambiato, e per questo, forse, privilegia azioni che facciano soprattutto rumore. La riforma delle pensioni è stata indubbiamente molto pesante, ma non poteva essere altrimenti, considerando che si trattava di rimettere in sesto le finanze pubbliche. Ma già con le liberalizzazioni si è fatta più “ammuina” che sostanza, più titoli di giornale che altro. Ed è più che probabile che anche per la flessibilità in uscita accada lo stesso, che si ripieghi su una riforma che in effetti non modifichera’ profondamente le strutture di difesa dei lavoratori, pur consentendo di sbandierare che si è intervenuti su una realtà che negli anni nessuno era riuscito a cambiare, e nemmeno ad affrontare.
Le premesse per questo ci sono tutte, perché le parti sociali sono disponibili a cambiare per esempio i tempi dei processi del lavoro, ma anche a modifiche più concrete, come l’estensione anche ai casi individuali delle procedure per i licenziamenti economici collettivi. Qualche problema potrebbe venire dalla Cgil, ma anche qui non sembra il caso di disperare, perché alla fine la confederazione di Susanna Camusso potrebbe approvare delle modifiche che non intacchino la sostanza delle tutele dei lavoratori. La Fiom e tutta l’ala radicale della confederazione protesterà, ma ormai è prassi in Cgil che la confederazione abbia una sua politica, prenda le sue decisioni, mettendo in conto che la Fiom ed altri voteranno contro in direttivo. La regola aurea della Cgil di una volta, per cui tutti dovevano essere d’accordo sulle decisioni più importanti è ormai caduta: adesso si vota e si decide a maggioranza.
MASSIMO MASCINI