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Home - Approfondimenti - Analisi - Le nuove tutele per i nuovi lavori

Le nuove tutele per i nuovi lavori

23 Aprile 2002
in Analisi

Luca Maria Colonna – Segretario Nazionale Uilm

Questo è il punto di vista di un sindacalista sulle questioni del mercato del lavoro e delle forme di lavoro atipiche, il punto di vista di chi milita in un’organizzazione che da sempre è abituata al confronto sul merito, abituata a fare scelte anche difficili, come poco meno di un anno fa, quando ha rinnovato senza la Fiom il contratto di lavoro più importante per la categoria. Scelte fatte con senso di responsabilità e con il consenso dei propri iscritti, dei propri militanti e, spesso, di molti lavoratori non iscritti. E’ anche il punto di vista di chi opera in un settore, quello metalmeccanico, che ha specificità e differenze da altri settori, ma anche al suo interno.
Il tema del mercato del lavoro e dei rapporti di lavoro atipici, si sovrappone a gran parte dei contenuti del Libro bianco, testo che ha sicuramente almeno un merito: è il catalogo completo dei problemi che il mondo del lavoro ha e che deve affrontare. Che poi alcune proposte non vadano bene, che altre vanno profondamente modificate per applicarle, mi sembra assolutamente normale. Ma non condivido la demonizzazione che è stata fatta di questo testo.
Anche perché, se guardiamo oltre le mura delle fabbriche che organizziamo, ci accorgiamo che di riforme, di riformulazione di norme (che la realtà di oggi ha reso obsolete e facili da aggirare per abusare delle fasce deboli del lavoro dipendente) ce n’è veramente bisogno.
Si rifletta, in primo luogo, sulla varietà di queste forme di lavoro atipiche: dal lavoro interinale al contratto a termine, con le sue varianti, il contratto di formazione lavoro e quello di inserimento, dalle collaborazioni coordinate e continuative (detti Co.Co.Co.) all’associazione in partecipazione o al lavoro in cooperativa (anche se in quest’ultimo caso, nella scorsa legislatura è stata realizzata un’ampia opera di “bonifica” grazie alle insistenze di Uil e Cgil e al ruolo – alla fine – costruttivo delle Centrali cooperative), fino a giungere alla degenerazione che chiamiamo “lavoro nero”. Una vera giungla, e nella giungla vale legge del più forte, o almeno di chi ha l’avvocato più bravo.
In questa giungla capita anche che in un tipo di rapporto è permesso fare ciò che non si può fare negli altri. Ogni forma, cioè, ha le sue specificità, differenti – a volte incomprensibilmente differenti – sia dal punto di vista dei costi per i datori di lavoro, sia da quello dei diritti dei lavoratori. Si comparino, solo per fare un esempio, i trattamenti di malattia di un apprendista, di un Cfl, di un terminista e di un interinale.
Si rifletta poi sulle ragioni formali e sostanziali che portano al ricorso a queste forme di lavoro: ci sono contratti a causa mista “formale”, cioè i Cfl e l’apprendistato, e contratti che hanno formalmente altre motivazioni  ma che sostanzialmente (e parliamo di buona parte dei contratti a termine e del lavoro interinale) servono da periodo di prova lungo e rinnovabile. In proposito, mi sento di rivendicare i meriti del recepimento dalla direttiva sui contratti a termine sostenuta nel sindacato solo da Cisl e Uil: il riferimento a “motivi oggettivi” per stipulare contratti a tempo determinato dovrebbe eliminare questo uso improprio.
Se poi si analizza il fenomeno dal punto di vista quantitativo, ci rendiamo conto che è difficile rispondere alla domanda: quanti sono? Le statistiche, insufficienti in generale, non permettono di stimare i contratti a termine nel nostro settore anche se – a livello complessivo – l’Istat individua nel 7% degli occupati (quindi 1,5 milioni) coloro che hanno un rapporto a tempo determinato. Su altre forme di lavoro atipico abbiamo almeno un ordine di grandezza, per esempio nell’interinale (dati 2000: 400 mila avviamenti per un corrispettivo a tempo pieno di 52 mila unità); di questi avviamenti, tra il 35 e il 40% sono in aziende metalmeccaniche. Si quantifica inoltre in 1,9 milioni i lavoratori che versano la contribuzione all’apposito fondo Inps. Mentre uno studio dell’Istat, relativo al 1999, quantifica in 45 mila (l’1,7% degli occupati) l’equivalente a tempo pieno dei lavoratori dipendenti in “nero” del settore metalmeccanico.
Infine, se si osserva questi rapporti dal punto di vista della diffusione nella categoria dei metalmeccanici, si è obbligati a concentrare la nostra attenzione prioritariamente sui contratti a termine e su quelli interinali.
C’è poi da approfondire il tema del part time. Almeno una parte – non irrilevante – del part time non rientra nei “nuovi lavori”, perché non è altro che un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che prevede un minor numero di ore rispetto allo standard. E devo confessare che nella mia prima riflessione su questi argomenti avevo scambiato questa parte non innovativa di part time per il totale e non ne stavo trattando.
Ma ci sono esperienze di part time innovative, si pensi a quello verticale che surroga – in meglio – il lavoro stagionale, che si applica alla Piaggio, o a quello che permette con maggiore facilità la risposta a picchi di attività nella stessa giornata o nella stessa settimana, come quelli che si verificano nei grandi supermercati o nei call center. Si tratta di unità di lavoro, di minori dimensioni, che con maggiore facilità e minor costo possono essere concentrati nelle ore di punta.
Inoltre, alcune possibili innovazioni come il job sharing (cioè lavoro condiviso da due o più persone obbligate in solido a garantire la funzionalità di un servizio o di un ufficio) o il job on call (lavoro intermittente o a chiamata, che – così come avevamo definito in un accordo improvvidamente bocciato – non era certo peggiore dal punto di vista delle tutele di quanto prevedono il lavoro interinale o quello a termine). Ebbene, queste forme si innestano logicamente e necessariamente su un orario di lavoro ridotto.
Il ricorso, la scarsa diffusione, del part time (di qualsiasi tipo sia) però resta un limite rilevante per la società italiana e per le possibilità di sviluppo occupazionale. Se vogliamo tentare di raggiungere gli obiettivi di Lisbona dobbiamo contare su un concreto apporto del lavoro a tempo parziale, e del resto qualche segnale che ciò può e sta avvenendo c’è. Dobbiamo superare i limiti, organizzativi e culturali, delle imprese che pensano che il part time è incompatibile con il lavoro sulle linee.
Se non si vuole, però, intervenire caso per caso, sotto la spinta dell’emergenza, e invece si tenta di avere un approccio di sistema, occorre trovare gli elementi unificanti e capire poi quali varianti legate allo specifico obiettivo del singolo strumento debbano essere previste. Questo è un altro aspetto giustamente evidenziato dal Libro bianco, che però in altre parti si cimenta anch’esso nell’inflazionare le forme di rapporto di lavoro. Noi invece abbiamo bisogno di poche, chiare e certe forme di lavoro e norme.
Gli elementi unificanti sono – a mio avviso – i problemi che tutte queste forme di lavoro flessibile pongono agli individui e alla società. La potenziale, incombente discontinuità di reddito accomuna tutte queste forme di lavoro e comporta, inoltre, la discontinuità negli accantonamenti previdenziali, un’incertezza esistenziale e alcuni problemi pratici quali, per esempio, non poter ricorrere al credito al consumo. Si è quindi cittadini con meno diritti e opportunità. Diventa difficile, allora, staccarsi dalla famiglia, pensare di crearne una propria, forse anche investire nella propria formazione.
Che fare, allora? Usare l’approccio unificante per avviare un confronto con le parti sociali che definisca gli obiettivi di tutela minima da garantire a tutti. Queste tutele dovrebbero essere:
– un breve, ma concreto sostegno al reddito per fine contratto, non credo sia proponibile un “salario sociale” ma si può realizzare un sostegno che liberi dall’assillo delle scadenze più immediate;
– un meccanismo che dia copertura previdenziale per i periodi di non lavoro;
– la possibilità di abbinare i precedenti interventi con periodi di formazione;
– la creazione di meccanismi mutualistici, analoghi a quanto fatto per l’accesso al credito degli artigiani, per favorire l’accesso al credito di consumo;
– concreti ed esercitabili diritti di prelazione per questi lavoratori in caso di assunzioni stabili operate dall’impresa, ovviamente a parità di mansione e qualificazione.
Permettetemi di sottolineare quest’ultimo come un punto determinante, la cartina di tornasole con cui misurare se – al di là delle dichiarazioni dialoganti – nella discussione si vuole o meno spostare poteri, modificare i rapporti di forza, dal lavoratore – e dal sindacato – all’azienda. E questo – credo sia evidente – non sarebbe accettabile.
Definiti questi obiettivi unificanti di tutela, si deve decidere dove, come e chi realizza questi interventi, tenendo conto anche che alcuni di questi sono già predisposti o in via di predisposizione, per esempio, per il lavoro temporaneo, e non si può né si vuole smontare o duplicare quanto già fatto.
In via sperimentale e con un approccio bilaterale, la categoria dei metalmeccanici potrebbe realizzare un sistema che in modo analogo a quello del lavoro temporaneo, offra le sopraelencate tutele ai tanti lavoratori a termine.
Tra l’altro, si potrebbero anche sfruttare delle sinergie, per esempio, sugli aspetti formativi, che potrebbero essere indirizzati non solo ai “terministi”, ma anche – in un’ottica di formazione continua – per i lavoratori stabili del settore. Infine, tutele e diritti debbono essere esigibili e per questo occorre intervenire sulla durata e sull’accesso al processo del lavoro. Credo che sia un’esigenza “bipartisan” delle parti sociali. L’arbitrato può essere la soluzione, ma solo nel rispetto di leggi e contratti.
L’arbitrato secondo equità, infatti, non solo è un riferimento indefinito, non solo sminuisce il valore della norma scritta, ma soprattutto non capisco quale potrebbe essere la convenienza anche per le imprese a sottoporsi a un giudizio così arbitrario come quello prospettato.
Di tutto ciò, deve essere chiaro, si vuole discutere, negoziare, definire interventi e accordi, perché vogliamo continuare a fare il nostro mestiere, tutelare e associare le persone che lavorano nel settore metalmeccanico. Bisogna essere aperti alle novità e al confronto, ma non si vuole ridurre tutele o, peggio ancora, ridurre il ruolo della negoziazione collettiva.
Questo confronto si concluderà infatti con più sindacato. Meno ideologico, magari, meno inutilmente rigido, meno confinato nelle proprie calde nicchie, ma comunque con più     sindacato.

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