Il lavoro forzato esiste ancora nel XXI secolo. E ha dimensioni e caratteristiche molto diverse da quelle che si potrebbero credere. L’ILO, nel rapporto del 2011, ha stimato che sono oltre 21 milioni i soggetti, molti dei quali bambini, vittime di forced labour, termine indicante la condizione di chi presta attività lavorativa sotto minaccia di pena (fisica, psicologia, finanziaria) o costrizione, che determinano l’impossibilità di lasciare tale tipo di lavoro, privo di sostanziali retribuzioni o altri corrispettivi.
Questa realtà è stata al centro, il 9 maggio, di una giornata di studi tenutasi presso la facoltà di Economia dell’Università degli studi di Roma La Sapienza, dal titolo: “Impresa e forced labour (quali azioni di contrasto?)”.
La riflessione si è incentrata in particolare sulle derive “incontrollate” delle politiche di ristrutturazione e de-localizzazione adottate da diverse imprese dei paesi occidentali, le quali, nell’intento di abbattere i costi di produzione, sfruttano i minor costi di approvvigionamento offerti da imprese che non rispettano le prescrizioni per la tutela del lavoro, fino a configurare, come evidenziato dal rapporto, utilizzo di forced labour.
Secondo Matteo Rescigno il ricorso all’impresa schiavistica non sarà certo fermato attraverso la sola repressione penale nei confronti di chi, al gradino più basso della catena produttiva, fa il “lavoro sporco”. Per questo motivo le regole di un’economia avanzata non devono consentire che le imprese possano trovare conveniente svolgere la funzione di “laundering” (riciclaggio di denaro) derivante dal lavoro forzato. La direttiva 2011/36 dell’Unione Europea sull’antitrafficking avrebbe consentito di attuare una normativa più strutturata, specifica, di settore.
Antonella Madeo e Alberto Caselli Lapeschi hanno evidenziato che, oltre i rari casi in cui sono stati utilizzati procedimenti volti ad affermare la diretta responsabilità dell’impresa committente rispetto all’illecita gestione dell’imprenditore che ricorre al forced labour, anche in termini di sanzioni penali, sembra possibile in alternativa inquadrare tali operazioni come ricettazione.
In tale ultima prospettiva (ossia di acquisto di manufatti realizzati attraverso lavoro forzato), hanno spiegato Franceso Buccellato e Giovanni Domenichini che, secondo il decreto 231 del 2001, gli amministratori sono chiamati a organizzare la società minimizzando il rischio di tale specifico reato (di ricettazione), attraverso un adeguato e reale sistema di protezione e controllo.
La violazione di norme di diritto pubblico tramite ricorso al forced labour, come esplicitato da Vittorio Giorgi, configura poi i presupposti per un’azione di concorrenza sleale finora trascurata. In tal senso sarebbe auspicabile l’avvio di una virtuosa azione regolatoria del mercato, a istanza di singoli imprenditori o associazioni di imprenditori.
Un problema fondamentale, hanno puntualizzato Giuseppe Tucci e Adriana Addante, è che, salvo per i casi in cui si riscontri da parte dell’impresa la sottoscrizione di codici etici o di condotta, il sistema normativo attuale non sembra sufficientemente strutturato per dare protezione effettiva alla scelta del consumatore, la quale dovrebbe esser tutelata rispetto a comportamenti illeciti dell’impresa.
Francesca Benatti ha poi descritto la rilevanza giuridica, anche e soprattutto sotto il profilo della responsabilità che può ingenerare la loro violazione, di tali codici etici, considerati ad oggi passaggio obbligato nelle policy di quelle aziende che intendano qualificarsi sul mercato attraverso l’adesione a standard di responsabilità sociale dell’impresa.
Infine si è dato risalto all’esigenza di reimpostare il sistema delle ispezioni del lavoro che, pur restando ad appannaggio del soggetto pubblico, potrebbe essere reso più efficace se affiancato da un sistema di private compliance (conformità a determinate norme, regole o standard), purché non autoreferenziale, da implementare nelle relazioni tra committenti e terzisti, sub fornitori, appaltatori. L’esigenza di dare maggior spazio all’azione dei sindacati, comunque essenziale, richiede, secondo Stefano Liebman, il rafforzamento della libertà di associazione mediante l’abbassamento della soglia occupazionale per l’applicabilità della normativa n.300/70.
A conclusione dell’incontro Pietro Rescigno, che ha presieduto i lavori, ha quindi ribadito l’importanza di trarre la questione del lavoro forzato come condizione da monitorare e rimuovere prioritariamente attraverso l’azione delle istituzioni sindacali a ciò deputate, ma anche attraverso risposte ordinamentali che non sono, solo, quelle della riaffermazione del contratto come strumento di libertà negoziale.
A seguire il confronto con i magistrati Fabio Di Vizio e Giorgio Di Giorgio, cui si deve un’importante sentenza del Tribunale di Forlì (Diritto del commercio internazionale, Giuffrè, n.1/2014, con nota di Francesco Buccellato) che ha dato avvio alla riflessione e all’organizzazione del convegno stesso, con Giuseppe Casale, delegato ILO, con Paolo Cassinis, delegato Autorità garante concorrenza e mercato, e con Angelo Trovato, già prefetto di Forlì in costanza del richiamato processo e oggi Presidente commissione nazionale sul diritto d’asilo.