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Home - Approfondimenti - Interviste - Enzo Mattina, “Quella volta che Berlinguer delegittimò il sindacato”

Enzo Mattina, “Quella volta che Berlinguer delegittimò il sindacato”

di Massimo Mascini
9 Dicembre 2020
in Interviste
Enzo Mattina, “Quella volta che Berlinguer delegittimò il sindacato”

Quarant’anni fa si svolse la vertenza Fiat, un momento di forte scontro tra capitale e lavoro. Una vertenza difficile, che terminò quando a Torino ebbe luogo la marcia dei quarantamila, come fu subito chiamata, che chiarì senza ombra di dubbio che la città, e gran parte dei lavoratori, non erano più con il sindacato. Finì con la messa in cassa integrazione di 22.500 persone per 18 mesi a zero ore. Un periodo lungo, che poi divenne ancora più lungo. Le relazioni industriali da quel momento cambiarono rotta, decisamente. Sono state molti da allora i chiarimenti, le spiegazioni, i commenti. Enzo Mattina, che al momento della trattativa era segretario generale della Uilm, uno dei tre bracci della mitica Flm, ricorda quell’evento con molta precisione. E a suo avviso gran parte della colpa della caduta del sindacato fu di Enrico Berlinguer, che nel mezzo della vertenza, forse nel momento più difficile, andò a Torino ai cancelli della fabbrica e con una frase a sorpresa delegittimò il sindacato. Un colpo a freddo, a suo avviso determinato dalla necessità del Pci di recuperare il controllo della situazione politica e sociale che stava scappando di mano al suo partito.

 

Mattina, come cominciò la vertenza Fiat, il negoziato del 1980 che segnò profondamente le relazioni industriali degli anni a venire?

Cominciò in modo non traumatico nell’estate di quell’anno, quando Umberto Agnelli, che allora era vicepresidente della Fiat, ci chiamò per parlarci delle difficoltà dell’azienda. Noi sapevamo bene che l’industria dell’auto era in una situazione complessa, non solo in Italia, nel mondo. A causa della crisi energetica, che aveva spazzato via i vecchi equilibri. Tutti erano in crisi, ancora di più la Fiat, che non aveva modelli nuovi, si era un po’ rattrappita, si era fermata. Sembrava in una crisi irreversibile, per cui non avemmo problemi ad avviare questo confronto perché era chiaro che qualcosa doveva succedere.

Umberto Agnelli cosa vi disse?

Ci parlò della situazione del mercato e ci disse che sarebbe servito un alleggerimento del personale, perché c’era un’eccedenza di 12 o 13mila persone.

Non vi parlò di governabilità?

Assolutamente no. In effetti l’anno prima c’era stato l’episodio dei 61 che erano stati licenziati per eccesso di violenza, ma questo tema nell’estate del 1980 non venne toccato. Parlammo di riorganizzazione, degli esuberi. Noi ce lo aspettavamo, il nostro problema era quello di avviare una trattativa per gestire la situazione. Pensavamo a un sistema di cassa integrazione a rotazione per ridurre quanto possibile i disagi.

Come vi lasciaste?

Con l’impegno della Fiat a presentare un piano, sul quale dopo l’estate avremmo avviato una discussione. Noi già pensavamo a un coinvolgimento pubblico, perché la Fiat era l’azienda più grande, egemone in Piemonte, il governo non poteva restare fuori da questa operazione. Ma eravamo tranquilli, anche perché la Fiat già da qualche anno aveva operato una trasformazione al proprio interno, creando una holding e 11 società operative, la trasformazione era stata avviata, si trattava di trovare gli strumenti idonei per regolare questa nuova realtà.

Invece la situazione cambiò repentinamente.

Sì, Umberto Agnelli fece un passo indietro, arrivò Cesare Romiti. Con lui il dialogo si fece più difficile, ma noi eravamo ancora intimamente convinti che all’accordo si potesse arrivare.

E cosa accadde?

A settembre ci convocarono all’Unione industriali di Torino e Romiti ci disse che le eccedenze erano 24mila e che potevamo scordarci l’ipotesi della cassa integrazione a rotazione. 24mila persone dovevano restare in cassa integrazione a zero ore per 18 mesi, dopo di che la metà sarebbe rientrata, gli altri sarebbero rimasti fuori. E ci fu detto in maniera inequivocabile che c’era un problema di flessibilità e di governabilità, che in fabbrica c’era troppa violenza, che tanti non facevano niente, che erano state organizzate perfino delle mense alternative.

Restaste disorientati?

Sì, perché non ci aspettavamo proprio una situazione così diversa da come ce l’aveva prospettata Umberto Agnelli. Lo ripeto, Noi non negavamo l’esistenza di un problema di mercato, ma volevamo gestirlo, mentre la Fiat aveva già deciso tutto.

La trattativa però andò avanti.

Sì, con alterne fortune. Arrivammo subito al livello nazionale, si attivò il ministro del Lavoro, Franco Foschi, che mise in campo diverse ipotesi. Fu in quell’occasione che dal gabinetto del ministro venne fuori perfino l’ipotesi, abbastanza concreta, di un piano di nazionalizzazione della Fiat. Il ministro avanzò comunque una soluzione per risolvere la vertenza. Erano dieci punti, il primo era il ritiro dell’ipotesi di licenziamento. Ma non se ne fece nulla. Un po’ perché il piano del ministro fu rigettato dall’azienda, un po’ perché tutta la trattativa andava avanti a singhiozzo. La Fiat all’inizio era presente al ministero, poi smisero di venire.

Voi che facevate?

Cercavamo di controllare la situazione, preparavamo gli scioperi articolati, perché pesassero meno possibile sui lavoratori. In una riunione tra le tre confederazioni e la Flm considerammo anche l’ipotesi di uno sciopero generale, ma poi non se ne fece nulla. Anche perché cadde il governo, quello presieduto da Francesco Cossiga. Ma soprattutto avvennero due fatti importanti che cambiarono l’andamento cella trattativa. Il primo fu l’arrivo il 25 settembre a Torino di Enrico Berlinguer, il segretario del Pci. Che andò ai cancelli di Mirafiori per parlare agli operai in lotta e, a una domanda di un delegato, Domenico Liberato Norcia, su cosa avrebbe fatto il Pci se gli operai avessero occupato la Fiat, rispose che la decisione la dovevano prendere gli operai ma che, certo, se loro occupavano Mirafiori il Pci sarebbe stato con loro. Un avallo che fece la differenza.

Quel era l’altro fatto importante?

Il 30 ottobre la Fiat inviò la lettera di cassa integrazione a zero ore a 22.500 persone, tutte scelte da loro. Noi in questi casi cercavamo sempre di gestire al meglio la situazione, facendo ruotare le persone coinvolte, vedendo chi poteva restare fuori, chi poteva permettersi di non lavorare. Ma in questa situazione fu impossibile qualsiasi intervento. La cassa doveva durare dal 6 ottobre al 2 gennaio dell’anno successivo per quelle 22.500 persone che loro avevano scelto.

Fu un atto decisivo?

Sì determinante, perché se quelli che avevano ricevuto la lettera erano furiosi e spaventati, tutti gli altri, e alla Fiat lavoravano 150mila persone, tirarono un sospiro di sollievo, furono più sereni, tranquilli. Finché non si sapeva chi sarebbe stato coinvolto nella perdita del lavoro tutti erano pronti a combattere, dal momento in cui si seppe chi era dentro e chi era fuori la situazione cambiò totalmente.

Non potevano però non sapere cosa stava accadendo.

No, ma la predisposizione dell’animo era quella. Del resto, su la Repubblica del 24 ottobre uscì un articolo molto importante nel quale Aris Accornero sulla base di un’indagine che era stata portata avanti dal Cespe, un centro studi vicino al Pci, spiegava che in Fiat c’era un 45% di collaboratori, così li chiamava, quelli che avevano fiducia nell’azienda, un 30% di persone che anche loro volevano collaborare con l’azienda ma per un impegno negoziale, erano pronti cioè a discutere e a trovare un accordo, e infine un 25% di antagonisti, in quanto tali indisponibili anche a un’intesa negoziata.

E questi ultimi comandavano?

Certo egemonizzavano la situazione. Noi volevamo avviare una serie di scioperi articolati, ma fu deciso lo sciopero a oltranza e il blocco dei cancelli. Con questi irriducibili non era facile un dialogo, un confronto, alcuni di noi ci riuscivano ma con difficoltà. Anche perché proprio loro erano stati legittimati dall’intervento di Berlinguer.

Un errore del segretario del Pci?

Non credo, bisogna considerare il momento storico. Era finita la fase del compromesso storico, il Pci era difficoltà anche sul piano elettorale dopo tanti successi, aveva bisogno di recuperare una posizione di forza per riavviare un rapporto di collaborazione con la Dc. Ricordo come Marcelle Padovani su Le nouvel observatuer scrisse in quei giorni che Berlinguer aveva la sindrome di Marchais, il leader del partito comunista francese ormai praticamente fuori gioco. Forse in quel momento il Pci avrebbe potuto cercare un’apertura verso il Psi, assieme avevano più del 50% della forza elettorale e altri piccoli partiti si sarebbero aggregati. Ma non fu così. Del resto il segretario del Pci pochi giorni prima di arrivare a Torino al Festival dell’Unità a Bologna disse che si doveva fare come a Danzica ai tempi di Solidarnosc, si doveva trattare in piazza con i microfoni per far partecipare alla trattativa tutta la popolazione. Tutto ciò ebbe sulla vertenza un peso molto importante, il Pci era il più forte partito comunista dell’occidente, era inevitabile che il negoziato si incattivisse, perché il sindacato era stato delegittimato.

E voi cosa faceste?

Poco potevamo fare. Anche perché l’offensiva della Fiat si era spostata sui giornali, anche con comunicati a pagamento portando avanti con grande determinazione il tema della governabilità. Spostò il tiro contro di noi, accusati di non saper gestire la situazione.

Arrivaste così alla trattativa diretta con la Fiat, quella che si tenne a Roma, nelle sale dell’Hotel Boston, a due passi da Via Veneto.

Ci andammo per cercare una soluzione, quando arrivò la notizia della marcia dei 40mila a Torino.

Che poi si disse che non erano davvero 40mila.

Ma non aveva importanza il loro numero. Erano tanti e con i capi, che erano certamente stati invogliati a partecipare, c’erano tanti operai e impiegati. E non ci fu ostilità della città verso chi marciava, al contrario.

Questo vi indusse all’accordo?

Non solo questo fatto. Pesò il fatto che avevamo avuto un’informativa che si stava preparando un grosso evento terroristico a Torino. Non era la prima volta che il sindacato incappava tragicamente con il terrorismo, ci eravamo abituati da anni, ma il problema non poteva essere eluso.

Si parlò molto anche della stanchezza dei presidi ai cancelli di Mirafiori.

Noi nei giorni precedenti gli incontri all’Hotel Boston cercammo di avere le idee più chiare su cosa stava accadendo a Torino. Non eravamo convinti di questi presidi, ci sembrava che ci fossero sempre le stesse persone, non erano punti di aggregazione, come invece avrebbero dovuto essere. Ci sembrava che qualcosa non funzionasse. Per questo mandammo a Torino ai cancelli un gruppo di lavoratori genovesi, persone molto affidabili, facevano spesso per noi il servizio d’ordine nei cortei. Loro andarono, poi ci telefonarono suggerendo di togliere i presidi perché non funzionavano, certo non erano in grado di controllare chi voleva entrare per andare a lavorare.

Anche questo episodio contribuì a farvi arrivare all’accordo?

Fu importante.

E’ vero che dopo l’arrivo della notizia della marcia Luciano Lama disse a Romiti di scrivere lui il testo dell’intesa considerando quanto avvenuto?

Diciamo che loro nella stesura del testo ebbero un ruolo determinante. Noi invece nei giorni successivi dovemmo portare l’intesa al Consiglione, il grande consiglio di fabbrica di Mirafiori, e non fu piacevole. Ricordo ancora come la situazione degenerò. A un certo punto mi accorsi che il palco sul quale stavamo per parlare ai lavoratori cominciava a piegarsi, allora scendemmo di corsa e fummo attaccati. Io fui difeso da Fausto Bertinotti, che si mise alle mie spalle e si prese i colpi che erano destinati a me. Gli ruppero una costola. Comunque riuscimmo ad arrivare ai cancelli della fabbrica, eravamo proprio lì davanti, i custodi ci fecero entrare e ci portarono lontano.

Un accordo difficile e complesso.

Era difficile che non finisse male. Noi eravamo stati indeboliti dall’intervento di Berlinguer, che usò questa vertenza per recuperare il controllo della situazione politica e sociale. A questo si unì la minaccia del terrorismo e la mossa determinante della Fiat che spezzò l’unità dei lavoratori comunicando la lista delle persone che sarebbero state coinvolte. Tutto ciò ci tolse la possibilità di un recupero.

Massimo Mascini

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