Il coronavirus poteva far riemergere una comunicazione incentrata sulla verità, ma così non è stato. Per Adriano Fabris, professore di filosofia morale e etica della comunicazione all’università di Pisa – dove dirige il Centro interdisciplinare di ricerca e servizi sulla comunicazione – e presidente della Società italiana di filosofia morale, è questa una delle opportunità che non abbiamo saputo cogliere dalla pandemia, che ha fatto emergere, con maggior forza, gli elementi di criticità del nostro paese. All’inizio del lockdown, spiega Fabris, era emerso un sentire comune e un senso di vicinanza che ora la crisi sta spazzando via. E sul ruolo della riflessione filosofica nel delineare la società post Covid afferma: “la filosofia può trovare spazio se pensata come disciplina trasversale, volta allo sviluppo della capacità critica, dell’argomentazione e della mediazione”.
Professor Fabris si parla molto della tenuta sociale del nostro paese in questo momento di crisi. Secondo lei quanto è a rischio?
Il rischio è molto alto. La pandemia si è abbattuta su un sistema paese con già degli elementi di criticità al suo interno, sia dal punto di vista economico, di sviluppo e direi anche psicologico, di mentalità. L’Italia, storicamente, non ha mai avuto una coesione sociale molto forte. Da studioso di etica, in quanto ethos, ossia di quell’insieme di principi, mentalità e comportamenti condivisi, mi interrogo su che fine abbia fatto questa dimensione comunitaria e di condivisione.
Non crede che con la pandemia ci sia stato un cambio di rotta?
L’inizio della pandemia sembrava aver portato con sé un nuovo senso di coesione e vicinanza. C’era la consapevolezza e la percezione di un pericolo comune, molto concreto, che riguardava la nostra salute. Tutto questo sembrava far presagire il recupero di un’identità comune, anche attraverso i gesti che tutti abbiamo visto, come appendere il tricolore ai balconi. Poi la crisi che ne è seguita ha sgretolato questo comune sentire, colpendoci individualmente, colpendo le singole famiglie o le singole categorie sociali, facendo riemergere così le identità e gli interessi particolari.
La politica ha capito questo pericolo?
Con le misure messe in campo, per ora, il governo sembra poter garantire il mantenimento della pace sociale, ma sono provvedimenti pensati per tamponare l’emergenza. A queste devono far seguito interventi di rilancio, che guardino al futuro.
Oltre alla coesione sociale, un’altra espressione molto in voga in questo momento è patto sociale. Sono la stessa cosa?
No, non sono la stessa cosa. La coesione attiene alla mentalità e agli atti che possono dare un senso di unità e di fiducia reciproca. Riguarda, dunque, soprattutto la sfera delle relazioni. È la consapevolezza che non ci si può salvare da soli. Il patto è lo strumento con il quale attuare tale coesione, mediando tra i vari interessi e le diverse sensibilità.
Democrazia e covid. Ci possono essere dei risvolti negativi per il nostro asseto politico?
C’è un problema di fondo nel comportamento e nella prassi democratica, ma questo non solo in Italia, anche in Europa e al livello internazionale. C’è una gestione scorretta del potere, soprattutto da un certo tipo di politica, che rimesta nel torbido, che segue la logica del “tanto peggio tanto meglio”, e che usa la pandemia per consolidare semplicemente la propria posizione.
Ci sono molte voci che chiedono una revisione del nostro modello democratico, da ultima quella del presidente degli industriali Bonomi.
Le riflessioni e le richieste, come quelle del presidente di Confindustria Bonomi, sono più che legittime, nel chiedere un nuovo modello di democrazia, un nuovo modello di sviluppo e di concertazione.
Altro tema, il rapporto tra pandemia e comunicazione, che cosa ne pensa?
Presso il Centro interdisciplinare di ricerca e servizi sulla comunicazione, che dirigo all’università di Pisa, abbiamo monitorato la comunicazione politica e pubblica durante il Covid, riscontrando tre elementi principali.
Quali nello specifico?
Il primo riguarda una commistione tra comunicazione istituzionale, personale e interpersonale. Da una parte abbiamo avuto i bollettini della protezione civile e, dall’altra, un abuso delle conferenze stampa da parte di Conte o gli annunci sui social dello stesso premier o di esponenti del governo. Questa commistione era già ben visibile nella comunicazione di Trump. È difficile dire se il suo canale Twitter sia quello del 45esimo Presidente degli Stati Uniti, o del signor Donald Trump.
Il secondo?
Il secondo aspetto è inerente alla pubblicità. Nelle prime fasi della pandemia ci sono stati molti slogan basati sul patriottismo. Comprare quel prodotto specifico era un modo per dire che insieme ce la potevamo fare. Ora, questo tipo di comunicazione sta venendo meno.
L’ultimo?
Infine abbiamo assistito, sui giornali e nelle trasmissioni televisive, all’esplosione dei tecnici. La pandemia ha posto, inizialmente, un forte bisogno di verità. Sapere, dalla persona esperta, se mettere o meno la mascherina voleva dire la possibilità di evitare di contrarre il virus. Il problema è sorto nel momento in cui i vari virologi e medici si sono trasformati in uomini di spettacolo. Questo ha creato disorientamento nel pubblico e una perdita di credibilità nella comunicazione tecnica e scientifica. Pochissimi di loro hanno avuto l’onesta di ammettere i propri limiti e i limiti della scienza, che naturalmente non ha la capacità di prevedere tutto. Siamo così ritornati al proliferare delle opinioni, più o meno fondate: come all’epoca dei no vax.
Oltre al pericolo pandemico, è stato molto sottolineato anche quello infodemico. In che modo possiamo difenderci dalla fakenews?
È possibile difenderci, prima di tutto, affidandoci a chi riconosciamo come esperto. Dobbiamo inoltre verificare le informazioni delle quali entriamo in possesso, il famoso fact-checking, che, grazie a internet, è molto più facile. Certamente il coronavirus poteva essere l’occasione per superare le fakenews, proprio perché avere informazioni con un contenuto di verità poteva essere una tutela ulteriore per la mia salute. Purtroppo così non è stato.
Come valuta il rapporto tra politici e tecnici?
Già Piero Calamandrei, ai suoi tempi, aveva sottolineato come i rappresentanti eletti dalle persone venissero sempre di più scelti tra coloro che non avevano una conoscenza tecnica specifica. Oggi abbiamo la figura del politico di professione, che spesso non ha competenze particolari, se non quella del compromesso e della mediazione. Per questo ci sono tecnici e consiglieri che coadiuvano l’attività del politico. Ma il ruolo del consigliere è appunto quello di consigliare, lasciando poi alla politica la responsabilità delle decisioni. Questo dovrebbe essere il modo giusto di pensare il rapporto tra tecnica e politica, che, tuttavia, non sempre c’è stato, con la politica che si è nascosta dietro ai tecnici.
Quale può essere il contributo e lo spazio della filosofia nella società che siamo chiamati a ripensare? Nella task force di Calao, ad esempio, non c’era nessun filosofo.
Se la filosofia viene intesa come disciplina prettamente accademica, ha un ruolo che potremmo definire archeologico, certamente utile, ma con uno scarso impatto sulla realtà presente. Se, invece, pensiamo alla filosofia come disciplina trasversale, volta allo sviluppo della capacità critica, dell’argomentazione, della mediazione e della risoluzione di problemi, allora lo scenario può cambiare. Oggi, purtroppo, impera una mentalità procedurale, di stampo neopositivista, legata a un certo tipo di scientificità. Il pensiero creativo e critico, molto più vicino a quelle che chiamiamo il “genio italiano”, non è un valore. Ecco perché nella task force di Colao non c’erano filosofi, ma figure con competenze solo in certe discipline.
Tommaso Nutarelli