Mentre si avvia il confronto tra Confindustria e sindacati sulla riforma dei contratti, uno studio della Fondazione Di Vittorio mette seriamente alle corde i fautori della redistribuzione a livello aziendale della produttività. Basta dare un’occhiata ai numeri per capire che la strada per spostare il peso degli aumenti retributivi dalla contrattazione nazionale a quella di secondo livello e’ ancora molto, ma molto lunga: a oggi, questa riguarda infatti solo il 21,2 delle imprese nazionali, mentre il CCNL e’ applicato nel 99,4% delle imprese e copre l’88,4% del totale delle retribuzioni di fatto. In altre parole: il recupero dei salari e’ legato ancora a strettissimo filo con la contrattazione nazionale, e ridurne il peso –come chiedono Federmeccanica e Confindustria- equivarrebbe a impoverire ulteriormente la stragrande maggioranza del mondo del lavoro.
Ma vediamo cosa dicono, nel dettaglio, i dati della FDV. La percentuale di contrattazione collettiva integrativa di 2° livello in Italia nelle imprese con almeno 10 dipendenti è del 21,2% di cui l’8,3% è contrattazione territoriale. La diffusione del 2° livello è ovviamente maggiore nelle imprese con almeno 500 dipendenti (69,1% di cui 3,6% territoriale) e rimane su livelli simili (60,5%) nelle imprese tra 200 e 499 dipendenti. Il calo è brusco nelle altre classi dimensionali: fra 50 e 199 addetti si passa al 38,5% e fra 10 e 49 dipendenti si scende fino al 17,5% (con una quota di territoriale rispettivamente al 6,6% e all’8,7%). Si evidenzia , inoltre, una forte penalizzazione territoriale che riguarda il Mezzogiorno. La percentuale di copertura scende infatti all’ 11,6% nel Sud e al 13,1% nelle Isole, con un peso della contrattazione territoriale rispettivamente del 5,9% e del 5,4%.
Fenomeno diverso è quello dell’Elemento economico di Garanzia Retributiva (EGR) – introdotto nel 2009- con la determinazione nei contratti nazioanli di un importo erogabile ai dipendenti di aziende prive della contrattazione collettiva di 2° livello. L’11,6% di aziende applica l’EGR in modo esclusivo, percentuale che sale al 17,9% in combinazione con altre forme salariali di tipo individuale. Naturalmente, avverte la FDV, l’EGR non è considerabile nella contrattazione di 2° livello; anzi, è ipotizzabile che in molti casi sia utilizzato per evitare un vero e proprio livello di contrattazione. Ma anche impropriamente sommando i due dati, risulta che circa il 61% del totale delle imprese non ha alcun elemento salariale aggiuntivo derivante dalla contrattazione: sia essa aziendale, territoriale, di gruppo, di stabilimento o l’EGR.
I dati sono quantitativamente diversi se si considera non la percentuale di imprese ma il numero dei dipendenti interessati. Dai dati INPS si evince che sono 7,8 milioni i lavoratori dipendenti del settore privato (agricoli e domestici esclusi) nelle imprese con almeno 10 dipendenti; altri 3,1 milioni sono occupati nelle imprese fino a 9 dipendenti. Secondo l’ elaborazione della FDV, relativa all’intera platea (comprendendo quindi anche i dipendenti delle imprese più piccole) sono circa 3,7 milioni i lavoratori interessati dalla contrattazione collettiva di 2° livello (aziendale o territoriale), il 34,1% del totale dei dipendenti.
Questa cifra è ricavata applicando le percentuali dell’indagine SICA-ISTAT alle aziende con più di 10 dipendenti, e ipotizzando che la contrattazione integrativa, nelle aziende fino a 9 addetti sia assente, ma attribuendo una percentuale della contrattazione territoriale pari a quella ISTAT tra i 10 e 49 dipendenti (con ogni probabilità una sovrastima). Dallo studio ISTAT emerge un altro elemento fondamentale: il 99,4% delle imprese applica almeno un CCNL. Di queste, il 75% copre la totalità dei lavoratori con un solo contratto nazionale e le restanti utilizzano più CCNL. Non solo: la FDV ha verificato lo scostamento tra i livelli retributivi del CCNL e quelli di fatto: la quota di retribuzione legata all’applicazione CCNL (straordinari compresi) è -nel 2015- dell’88,4% per l’insieme di Operai, Impiegati e Quadri. La quota sale ulteriormente considerando la sola qualifica di Operaio, arrivando al 93,5% anche non considerando gli straordinari. Il CCNL – conclude lo studio – si conferma dunque elemento insostituibile di autorità salariale sia per quantità di applicazione nelle imprese che per percentuale di copertura
A questa conclusione arriva anche Franco Martini, segretario confederale Cgil che segue i vari tavoli sulla riforma dei contratti: “Quando dalle affermazioni accademiche o di pura propaganda politica, si passa ai dati reali, emerge una realtà profondamente diversa dalla narrazione alla quale siamo sottoposti da tempo. La ricerca condotta dalla Fondazione Di Vittorio rende giustizia di tanti luoghi comuni, secondo i quali la moderna contrattazione dovrebbe derubricare la funzione del contratto nazionale a vantaggio di quella più strettamente aziendale”.
Per Martini, “il sindacato non ha mai negato la necessità di implementare il secondo livello di contrattazione, perché più vicino alle peculiarità delle aziende e dei territori, ma da tempo andiamo ripetendo che questa condizione riguarda una stretta minoranza delle imprese: senza una funzione centrale del contratto collettivo nazionale – sottolinea – il mondo del lavoro sarebbe spaccato in due, con una minoranza in grado di avere tutele anche avanzate è una grande maggioranza in condizioni marginali.”
Per questo, Cgil, Cisl e Uil, unitariamente, hanno avanzato una proposta di riforma del modello contrattuale fondata sulla centralità del CCNL e sullo sviluppo di un secondo livello contrattuale sia aziendale, che territoriale. “Anche da qui – conclude Martini – viene la conferma del ruolo importante del contratto nazionale. Il ritardo dei rinnovi ha posto il valore del salario nel nostro Paese ai livelli più bassi dei paesi europei, con evidenti conseguenze negative nel rilancio della domanda interna. Il tema dei rinnovi contrattuali è questione strategica per il rilancio dell’economia, come la stessa ricerca conferma”.