Prima arrivò la pioggia, quel 13 giugno, alle otto in punto della mattina. Una burrasca che allagò la piccola cittadina. Una tempesta d’acqua degna del Diluvio Universale. Durò tutto il giorno. Il mattino successivo una fanghiglia giallastra ricopriva strade e marciapiedi. E da sotto la strana melma cominciarono a sciamare limacce color viola, un verminaio fosforescente. Scope, palette, mani nude riuscirono, vincendo fatica e disgusto, ad avere la meglio sulle corpulente e viscide creature. Bisognava sbrigarsi sia per evitare che entrassero nelle case sia perché da lì a poco si sarebbe inaugurata la grande fiera annuale di piante e uccelli. Si fece in tempo e l’evento, che richiamava gente da ogni dove, ebbe inizio.
Tutto sembrava tornato alla normalità ma poi cominciò a spirare un vento violento che fece volare mercanzie, bancherelle, tabelloni pubblicitari, tetti, baracche. La bufera d’aria sollevò in roteanti mulinelli il sedimento giallastro che era rimasto appiccicato all’asfalto, soprattutto in periferia. A sera, l’uragano di polvere cessò di botto. Poi cominciarono le morti, improvvise ed inspiegabili. Il farmacista Aldo Torrenova, il commerciante di stoffe Carlino l’Avaro, don Ciccio il tabaccaio, Enzo il sarto, Marta la gelataia. Decessi fulminanti. Le vittime cadevano a terra all’improvviso, ovunque si trovassero. Tutti con il volto stravolto da una smorfia d’orrore.
Comincia così il romanzo di Piero Bevilacqua ambientato a “Contagina” (omen nomen), un’amena località del Nord Italia che diventa all’improvviso l’ombelico dell’Italia come fu per Codogno e Alzano, esattamente tre anni fa. Già, perché l’inizio della pandemia viene ufficialmente datato al 30 gennaio del 2020. Ma il libro di cui stiamo parlando, e che esce proprio in queste settimane (mentre imperversa un’insolita e tenace influenza) a rimarcare una ricorrenza che sembriamo aver dimenticato, offuscati dal drammatico presente, colloca la vicenda nei Tempi Nuovi, un’era futura scaturita dal susseguirsi di allarmi virali.
Una società nella quale non esistono più destra e sinistra ma va in scena una commedia delle parti. Di volta in volta, maggioranza e opposizione si scambiano i ruoli, un assetto della vita politica definito “discordia simulata”. Identici, con poche sfumature, i valori sociali di riferimento, il Pil, la crescita economica, la produzione e il consumo di beni superflui, il denaro. La nuova divisione, semmai, separa contagisti e sanisti.
Il misterioso morbo, la cui unica evidenza è il ghigno di disgusto che accumuna le vittime, da Contagina si propaga in tutti i continenti. Si va avanti così, tra morti istantanee, teorie strampalate, personaggi singolari, idiozie a profusione, reazioni scomposte. Bevilacqua, professore universitario, studioso (a lui si deve una preziosa “Breve storia dell’Italia meridionale”), appassionato e instancabile animatore culturale e politico, ha una scrittura prensile, duttile, minuziosa. Da segnalare le pagine, pregne di sapienza botanica, sul grande incendio che dalla Sicilia risale la penisola fino alle alpi, evitando gli abitati ma distruggendo foreste e campagne.
Chiari i riferimenti alla Peste di Camus e a Cecità di Saramago ma la tragedia è intessuta con una stoffa di arguta e divertente ironia che fa pensare ad Aldo Palazzeschi e ad Achille Campanile, passando per Borges e Buzzati. Si legge tutto di un fiato, come un giallo o un racconto di fantascienza.
Amara la conclusione, quando la nuova emergenza finisce. “Da decenni e decenni i governanti di tutti i Paesi promettevano ai loro governati rinascite e nuovi corsi storici, rinnovamenti radicali ed epifanie, che non si avveravano mai”. Durante le pandemie “si scorgeva, squarciato il velo delle antiche favole, l’intima ossatura della vita organizzata, la fasullagine delle gerarchie, l’arbitrio violento del dominio, l’universale pochezza di tutti, ma anche lo spiraglio aperto verso un altro possibile corso”. Tanto che “quando, tra lo stupore generale la morte di massa abbandonava la scena del mondo tutti credevano di trovarsi all’inizio di un nuovo sentiero dell’umana vicenda”.
“In realtà, come sapevano pochi, appartati e solitari vecchi – Bevilacqua sembra annoverarsi tra costoro – i quali conoscevano il sempiterno, selvaggio, primordiale potere del Potere, tutti, uomini e donne, ricchi e diseredati, con il bastone in mano o in ginocchio, si apprestavano a ripetere la sciocca e crudele commedia di sempre, con gli stessi schiamazzi, risa e pianti, l’immutabile ridda di vincenti e sconfitti dei secoli e dei millenni precedenti. Per costoro, consumati dagli anni e dalle delusioni, dai pensieri ruminati in profonda solitudine, essendo scomparso tra gli uomini l’istinto di salvezza, vale a dire l’antica attitudine alla rivolta, l’indomabile spirito di insurrezione che li aveva per lungo tempo accompagnati, la storia dei figli di Adamo era avviata a un circolo senza fine di disastri e di illusorie rinascite”.
Parole di profondo pessimismo ma anche un monito a non arrendersi mai. La rottura del plumbeo schema non è un’utopia. A meno che si voglia attendere, inani e passivi, il Big One.
Marco Cianca