Le grandi trasformazioni della globalizzazione, che ha prodotto una crescente frammentazione e allungamento delle filiere produttive, non sono state colte dalla nostra politica industriale. È questo il giudizio di Pier Paolo Baretta, ex sindacalista della Cisl e leader dei metalmeccanici poi deputato del Pd con incarichi in vari governi. Il pubblico, sostiene, può e deve avere un grande ruolo di guida nella politica industriale, soprattutto ora con le risorse del Pnrr. Per affrontare le sfide future, prosegue Baretta, le parti sociali devono compiere un significativo salto di qualità, dando vita a un sistema di relazioni industriali sempre più partecipativo.
Baretta, partiamo dall’attualità. Confindustria ha proposto l’obbligo del green pass per poter accedere al posto di lavoro. Cosa ne pensa?
Purtroppo non ci siamo ancora lasciati alle spalle la pandemia. Ma stiamo vivendo una fase di ripresa sia economica sia sociale. L’industria e la manifattura, nonostante tutte le crisi, stanno dando degli ottimi segnali. I protocolli sulla sicurezza della scorsa primavera hanno impedito il blocco della produzione, garantendo la salute dei lavoratori. Oggi sarebbe un errore non prendere tutte le precauzioni e non mettere in campo ogni strumento per scongiurare un nuovo stop. Naturalmente il tutto nel rispetto della libertà del singolo e senza prescindere dal confronto con il sindacato.
Ecco, appunto, l’industria dove, nonostante gli incoraggianti segnali di ripresa, stiamo assistendo a procedure di licenziamento, scioperi e fughe delle multinazionali. Il ministro del Lavoro Orlando ha proposto di sanzionare le grandi aziende che delocalizzano. È una via percorribile?
La definirei una proposta comprensibile ma rischiosa. Al G30 di Venezia si è fatto un passo avanti importante sulla tassazione, per vincolare la dimensione fiscale delle multinazionali al luogo nel quale creano il profitto. Ma le multinazionali sono realtà mobili, parte del processo di globalizzazione, e pensare di legarle a un’area specifica è molto difficile. Semmai si dovrebbe pensare a un sistema di incentivi con dei vincoli ben precisi.
Il governo ha messo sul piatto ulteriore Cassa integrazione gratuita per evitare una corsa al licenziamento dopo la fine del blocco. È una strategia utile o servono altri strumenti?
La Cassa integrazione è uno strumento che ha una sua logica di utilizzo, per governare un momento di crisi dell’azienda o una flessione dovuta al mercato. Ma è chiaro che si tratta di uno strumento che non può stare da solo. La pandemia ha naturalmente costituito una fase negativamente eccezionale, che non ha avuto precedenti. Ma è chiaro che in prospettiva serve una riforma degli ammortizzatori sociali e la Cassa integrazione non può essere il solo e unico orizzonte.
Resta comunque da capire il perché l’industria italiana stia vivendo questa condizione. Che cosa è mancato?
In questi anni c’è stata una trasformazione del sistema dei mercati. La globalizzazione ha prodotto una crescente frammentazione e allungamento delle filiere produttive, tanto che non si produce più, come accadeva una volta, dove ci sono le materie prime o nel mercato di sbocco. Da un lato non abbiamo affrontato e governato gli esiti di queste trasformazioni al livello di politica industriale, dall’altro ci siamo molto affidati alla risposta spontanea che il tessuto della piccola e media industria ha saputo dare alle crisi. Non è un caso che gli effetti di questi processi vengono maggiormente accusati dalle grandi aziende. Infine abbiamo puntato in maniera crescente sul terziario.
Che cosa dovrebbe fare la nostra politica industriale?
Capire su quale livello l’Italia vuole competere. Siamo ancora la seconda manifattura d’Europa, facciamo parte dei sette paesi più industrializzati. Non possiamo pensare di competere unicamente sul costo del lavoro.
Su quali cavalli bisogna puntare?
Sulla qualità, l’innovazione e la certezza delle regole.
In che modo?
Quello del made in Italy è un concetto ormai diffuso, che non riguarda unicamente la moda o l’agroalimentare, ma è trasversale a tutta l’industria. Ma la qualità richiede innovazione, formazione e ricerca. È poi necessario puntare su un alleggerimento della burocrazia e la certezza del procedimento giudiziario. Senza entrare nel merito della questione o del dibattito politico, la riforma della giustizia è un qualcosa di assolutamente necessario. Questo non vuol dire abdicare alla produzione di base. Pensare a un futuro green e sostenibile per lo stabilimento di Taranto della ex Ilva vuol dire non rinunciare a una fetta importante del nostro apparato produttivo.
Dunque il Recovery Plan è un’occasione da non perdere.
Assolutamente sì. Non solo per la grande quantità di risorse che avremo a disposizione, ma soprattutto perché possiamo finalmente imprimere una direzione, una visione al nostro sistema produttivo, orientandolo verso la svolta digitale e green.
E qui, suppongo, entra il gioco il pubblico.
Il pubblico in questo può avere un ruolo cruciale, non solo come produttore, nonostante alcune delle nostre aziende più grandi e importanti abbiano la presenza dell’attore pubblico, ma per indirizzare la traiettoria della nostra industria. Noi spendiamo 19 miliardi in filiere produttive con componenti ambientalmente dannosi. Un esempio: il gasolio per l’autotrasporto. Se il pubblico decidesse di indirizzare altrove questi denari, magari sull’elettrico, o sull’idrogeno, le imprese dovranno per forza orientarsi verso questa nuova opportunità.
Il nostro sbaglio è stato quello di puntare troppo su filiere del terziario a basso valore aggiunto?
La situazione italiana è molto variegata, e questo è un bene. Letture univoche, o basate sulla contrapposizione tra un settore e l’altro non sono mai positive. È vero l’Italia ha perso la grande sfida dell’informatica dove, negli anni passati, abbiamo avuto anche una posizione di leadership. Ma ci sono tanti altri comparti, sempre più innovativi e competitivi, nei quali ricopriamo un ruolo da primatista. Penso all’agroalimentare, ma penso anche al turismo, dove negli ultimi dieci anni abbiamo fatto passi avanti notevoli, nonostante il patrimonio artistico, culturale e naturale, ma che non sempre veniva valorizzato al meglio. Oggi quando pensiamo all’industria dobbiamo avere una visione ampia, che include anche questi settori e non più unicamente quelli tradizionali.
Nella gestione delle crisi si ha la sensazione che il sindacato arranchi, che sia in difficoltà, che faccia ricorso a strumenti obsoleti. Pensa che sia così?
Il sindacato si trova in una posizione oggettivamente difficile. Da un lato ha, per sua natura, all’interno del suo dna, un atteggiamento volto alla tutela del lavoro, ossia di quel posto di lavoro, all’interno di quell’azienda, in quel contesto specifico. Si tratta di un’attitudine che possiamo definire fisiologica. Ma dall’altro deve sapere governare le trasformazioni della globalizzazione.
Che cosa dovrebbe fare?
Serve un salto di qualità da parte del sindacato, così come da parte delle rappresentanze datoriali, all’interno di un sistema di relazioni industriali rinnovato.
In che modo?
Occorre un modello sempre più partecipativo, basato sulla democrazia economica e sul coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali. Credo che la strada da prendere sia questa. Ma per farlo serve anche una legislazione di sostegno. Lo stesso Piano nazionale di ripresa e resilienza può essere una grande occasione per le parti sociali. Sindacati e rappresentanze datoriali possono diventare gli attori di un processo di governance e monitoraggio per vedere se effettivamente le risorse europee vengono dirottate sulla trasformazione verde e digitale.
Il mondo del lavoro si trova sempre più spesso a confrontarsi con quello della finanza. È un dialogo tra sordi?
Non so se sia un dialogo tra sordi, ma non possiamo esorcizzare la realtà. La finanza è ormai un elemento imprescindibile. Le relazioni industriali dovranno saper gestire anche questa sfida, che però non potrà essere affrontata a un livello meramente nazionale. Anche sul piano europeo sarà importante dotarsi di strumenti per relazionarsi con questi nuovi tipi di proprietà.
Tommaso Nutarelli