Il Primo maggio di quest’anno, a fronte alla tragedia della pandemia, costituiva un’occasione per il sindacato italiano, di riscoprire i valori fondativi delle lotte per i diritti sociali e relazionare il lavoro con le nuove sfide dell’innovazione e dell’economia 4.0.
E, invece, non si è andati oltre la mera celebrazione in luoghi simbolici, con la giaculatoria di “essere ascoltati” dal premier Mario Draghi, quasi fosse un demiurgo a Palazzo Chigi, con la svalorizzazione della funzione di “corpi intermedi”. Un’eccezione è venuta dalla Confial, una giovane organizzazione sindacale di ispirazione riformista e comunitaria in veloce crescita, che ha celebrato di recente il suo primo congresso nazionale, guidata da un leader innovativo e di solida esperienza come Benedetto Di Iacovo, che ha promosso una manifestazione con centinaia di quadri collegati on line per il 1° maggio, dal titolo “Sindacato lavoro e società nell’era dell’incertezza dell’adattamento della resilienza”, a cui hanno preso parte personalità come Giorgio Benvenuto, Tiziano Treu e Santi Fedele, da cui sono venute alcune proposte, come quella di un “patto sociale” per il Recovery Plan.
E a 160 anni dall’Unità d’Italia l’approvazione del Recovery Plan sembra davvero una sorta di metafora della sua mancata effettiva realizzazione.
E’ sotto gli occhi di tutti, infatti, come un anno di pandemia abbia accresciuto il divario tra Nord e Sud del Paese, evidenziando ancora una volta le differenze territoriali, che per molteplici motivazioni di carattere storico, culturale, sociale e geografico, rappresentano una costante nei processi di sviluppo della Nazione italiana.
Come è ampiamente illustrato a livello storiografico, lo Stato unitario appena nato, fu costretto a misurarsi con l’evidente gravissimo problema della profonda disomogeneità tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud, che non si volle affrontare. Meridionalisti di diverse ideologia politica e formazione culturale, come il liberale progressista Francesco Saverio Nitti, il socialista federalista Gaetano Salvemini, il comunista Antonio Gramsci e il democratico liberale Guido Dorso, hanno espresso storicamente una convergenza sulla tesi dell’abbandono voluto del Meridione e dello sfruttamento delle sue risorse, in particolare di quelle dei lavoratori, da parte dello Stato centrale. E ciò, nonostante – come illustrato in un bel saggio del 2011 dello storico Massimo Salvadori dal titolo “L’Italia e i suoi tre Stati”, l’unità del Paese sia passata da tre periodi politico-istituzionali profondamente diversi tra loro: lo Stato liberalmonarchico, la dittatura fascista, la democrazia repubblicana.
E a fronte di tale secessione, sociale ed economica, segnata dall’emigrazione di massa, specie nel secondo dopoguerra, dalle campagne meridionali verso le grandi fabbriche fordiste del Nord, e, oggi, di giovani dotati di cultura e conoscenza in fuga dalla disoccupazione del nostro Mezzogiorno, sovente le classi dirigenti a livello centrale ne hanno dato una intollerabile giustificazione antropologica. Ha scritto Paolo Macry di una sorta di limes costruito all’inizio dell’esperienza unitaria italiana, tra un Nord orientato dai processi di modernizzazione europei e un Mezzogiorno bollato per “alterità radicalizzata” e presunti tratti “africani”. Ma per lo storico dell’Università Federico II di Napoli “Qualunque sia stato storicamente il ruolo dei governi centrali, molta parte del problema va addebitata alle classi dirigenti e alle comunità del Mezzogiorno”.
Non vi è dubbio che il tema della carenza di cultura di governo, delle pratiche clientelari e dei connubi con la criminalità organizzata, da parte delle élites politiche (o sedicenti tali!) del Meridione, assieme, bisogna rilevarlo, ad una certa carenza di cultura civica tra le popolazioni e di senso del collettivo, abbia costituito la giustificazione per il sistematico abbandono del Sud.
Ritorna, ancora una volta, di attualità il problema evidenziato da Guido Dorso del “self-government” nel Mezzogiorno, della capacità di realizzare forme di integrazione tra le diverse regioni del Sud basate sull’autogoverno, che secondo il grande meridionalista: “prima che nelle istituzioni e nelle leggi, deve nascere nello spirito dei cittadini, è funzione critica di distacco da ogni forma di autorità che non sia l’autorità della libertà, è contrapposizione a tutte le forme di violenza, è insomma armonia di libere coscienze che tutelano i loro interessi legittimamente conquistati”.
Se così non sarà, i fondi europei contro la pandemia saranno un’altra occasione perduta per il Sud di essere davvero parte costitutiva della Nazione.
Maurizio Ballistreri, Docente di diritto del lavoro nell’Università di Messina.