Anche quest’anno è stato pubblicato L’Annuario del lavoro, il tredicesimo da quando nel 2008 abbiamo avviato questa iniziativa. Riportiamo qui la copertina, illustrata da un’opera di Diego Rivera. Il volume è già stato consegnato a tutti coloro che si erano prenotati. Chi volesse acquistarne una o più copie può richiederla con una mail al nostro indirizzo segreteria@ildiariodellavoro.it. Il prezzo di copertina del volume è di € 70,00, per la vendita diretta e’ di € 50,00, Iva compresa.
Qui la prefazione al volume, scritta dal direttore del Diario del Lavoro, Massimo Mascini.
Non ce lo scorderemo presto questo 2020. Era cominciato male, con l’economia in affanno e la certezza che presto saremmo entrati in recessione. Poi è piombata la pandemia che ha sconvolto abitudini e prospettive. Il danno economico è stato fortissimo, non fosse che perché si sono persi almeno 500mila posti di lavoro e almeno altrettanti ne cadranno quando finirà il blocco dei licenziamenti. Le relazioni industriali invece hanno retto bene. Le grandi aziende e tantissime delle medie hanno cercato e trovato fin dal primo momento accordi con le rappresentanze sindacali per regolare l’attività e dare sicurezza ai lavoratori. Più difficile il dialogo tra i soggetti nazionali, le confederazioni. Imprenditori e sindacalisti hanno litigato un bel po’ per capire cosa doveva chiudere, cosa invece poteva restare aperto. Con una curiosa inversione di tendenza, perché a differenza di quanto sempre avviene, gli imprenditori volevano tenere aperte le fabbriche, i sindacalisti invece tendevano a tenere a casa tutti i lavoratori. Ma un accordo, soddisfacente per tutti, alla fine è stato trovato. E il paese nel complesso ha retto. Chiusi in casa, senza poter incontrare nessuno per mesi, lontani dai loro cari, gli italiani hanno saputo reagire. Hanno retto alle chiusure che si estendevano, non hanno fatto cadere le speranze.
Poi la morsa si è allentata, è ripresa la vita, anche se eravamo tutti un po’ stonati da questa lunga vacanza. Qualcuno si è illuso che tutto fosse finito, come ci si augurava continuamente durante il lockdown, e ha allentato le difese e le attenzioni. Ma non era finita lì, dopo l’estate è tornata la pandemia, cattiva come nei primi mesi. Eravamo un po’ più preparati, ma nemmeno tanto considerando l’impennata dei contagi, dei ricoveri e, purtroppo, dei decessi. Ma soprattutto in questa seconda ondata è mancata la coralità, non abbiamo pensato tutti allo stesso modo, ha vacillato la coesione sociale. Ciascuno, per lo più, si è rinchiuso nel proprio intimo, tutti attenti ai propri interessi, pochi certi di non essere stati offesi o al massimo raggirati. Tanti hanno creduto opportuno scendere in piazza per manifestare pubblicamente il loro malessere. E’ tornato il rancore. La prospettiva è quella di resistere fino a quando non sarà distribuito, a tanti se non subito a tutti, il vaccino, che dovrebbe salvarci. Ma in tanti pensano che non finirà presto e che magari arriverà un altro virus. E allora davvero non sarà più tutto come prima.
In questi mesi difficili anche per le relazioni industriali si è affacciato un nuovo protagonista, che ha subito occupato la scena, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Ha suscitato fin dalle prime battute un grande interesse perché dichiarava di voler portare Confindustria fuori dalle secche nelle quali si era impantanata, fuori dal cono d’ombra in cui si era rinchiusa. Una prospettiva condivisa da tutti perché Confindustria rappresenta uno dei grandi players della vita economica e sociale e la sua assenza non può che rappresentare un danno per l’intero paese. Ma è stato subito chiaro che non sarebbe stato facile risalire la china, anche perché Bonomi ha mostrato di avere fretta, mentre forse una politica e un comportamento più accorti avrebbero potuto portare risultati migliori. Per non sbagliare e non farsi imbrigliare in un gioco che non gli piaceva il nuovo presidente di Confindustria ha creduto bene di attaccare, anche abbastanza duramente, i suoi interlocutori privilegiati, il governo e i sindacati.
Al governo ne ha dette di tutti i colori, accusandolo di non avere una visione d’insieme della politica che serviva al paese, di far più danni del Coronavirus, almeno nell’economia, in pratica di non essere all’altezza della situazione. Accuse forti, forse anche giustificate dalle indecisioni e soprattutto dai ritardi del governo, non sollecito come sarebbe necessario nell’affrontare, oltre all’emergenza sanitaria, anche quella economica e quella sociale. Un attacco duro, che però si è scontrato con il muro di gomma eretto dal governo, nel quale tutte le spinte si sono attenuate. Più forte, forse, l’attacco portato al fortino sindacale, perché il presidente di Confindustria ha pensato di giocare la partita sul terreno dei rinnovi contrattuali. Un terreno difficile, perché per il sindacato i contratti sono la base della propria azione, e la loro salvaguardia è fuori discussione. Il risultato è stato da un lato la paralisi, anche se non totale, delle trattative contrattuali, e dall’altro la mancata partenza di un dialogo, a due voci o a tre, sui problemi di fondo del paese. Ed era questo invece il campo nel quale scontrarsi e magari incontrarsi, perché il paese mostra tutti i ritardi e le deficienze che aveva anche prima della pandemia e così si va solo a sbattere, ma l’Italia ha la possibilità di affrontare queste difficoltà perché ha ricevuto dall’Europa con il Recovery Fund le risorse, molto ampie, che potrebbero permettere un vero salto in avanti. Ma la partita non è chiusa, al contrario è ancora tutta da giocare.
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Questo Annuario è dedicato a Lauralba Bellardi e a Maria Gabriella Cantalamessa, due grandi amiche di tutti noi del Diario del lavoro. Lauralba, grande esperta di relazioni industriali, allieva prediletta di Gino Giugni, ci aveva aiutato dalla prim’ora a ideare e realizzare l’Annuario del lavoro e ci è stata vicina fino all’ultimo. Maria Gabriella era la nostra art director, con la sua grande capacità ha fatto più bello il nostro lavoro regalandoci bellezza e grazia. Questo anno terribile ce le ha portate via. Non usciranno mai dai nostri cuori.