Un piccolo furgone scassato. Sulla ribalta posteriore, una ruota di scorta e tre persone. I visi indistinti, scuri per il colore della pelle e per l’ombra dei cappucci. Sono intabarrati con delle coperte a strisce che ricordano le divise dei carcerati. All’orizzonte, il giallo infuocato del tramonto sparge un’ultima luce di speranza sopra la landa desolata. Dannati della terra. In viaggio, schiavi, senza un domani. Scarti umani. Ignari testimoni della giornata mondiale del migrante e del rifugiato.
Una grande sala. I raggi di sole che entrano dalle finestre non riescono a scacciare del tutto il buio dello stanzone. Il soffitto è molto alto, i muri disadorni. Quattro lunghe file di rudimentali banchi. Vuoti. Non c’è nessuno, nell’aula della scuola di Kagara, nordovest della Nigeria. Le trecento ragazze che studiavano qui, sperando di tessere con la cultura il proprio futuro, sono state rapite e trascinate nella foresta dai guerriglieri jihadisti aderenti a Boko Haram.
Una bambina e un bambino. Ci guardano, accennando un melanconico sorriso. In mano, un piatto di plastica, con rimasugli di cibo. Lei, la piccola, ha la boccuccia sporca. Non le hanno certo insegnato a tenerla chiusa mentre mangia. Ammesso che riesca a mangiare. Devastata dagli uragani Tea e Iota, oltre che dal Covid 19, l’America centrale è assediata dalla fame. In Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua, otto milioni di persone non raggiungono la soglia minima dell’alimentazione necessaria.
La veduta dall’alto di una valle invasa dall’acqua. Tutto è livido, grigio, violaceo. I resti sfondati di una diga evocano l’ingresso della città di Dite. Un girone infernale dipinto da Gustave Doré. Nord dell’India. Un costone del ghiaccio himalaiano Nanda Devi si è staccato ed è precipitato travolgendo ponti, strade, due centrali elettriche. Centinaia i dispersi.
Un gruppo di donne urlanti. Vestite di nero, il chador a nascondere i capelli. Volti contorti, maschere di sofferenza, un coro tragico, antico come è antico il dolore. Baghdad. Un attentato ha devastato il mercato, trentacinque i morti e ottanta i feriti. Nella capitale irachena la guerra non è mai finita e le esplosioni segnano il sanguinoso trascorrere del tempo.
Una suora, di spalle, inginocchiata sul selciato di un piazzale. Prega, fronteggiando da sola, inerme, una fila di poliziotti in tenuta antisommossa. Myitkyina, nord del Myanmar. Dopo il colpo di stato, i militari hanno scatenato una feroce repressione. “Prendete me, risparmiate quelle giovani vite”, implora Ann Nu Thawng, uscita dal vicino convento di San Colombano nell’impeto di proteggere dai manganelli e dai colpi di fucile gli studenti che manifestano per chiedere libertà e democrazia. “È un’eroina”, commenterà una delle giovani riuscite a sottrarsi alla furia degli agenti grazie al coraggio della suorina.
Le parole e la scrittura non bastano a smuovere le coscienze. E allora il Verbo, per dirla in modo biblico, si fa Immagine. Là dove non arrivano i suoni e i segni grafici, a suscitare scandalo sono le finestre aperte sulla realtà. L’Osservatore Romano tiene fede al proprio nome, in senso letterale, e dalla caput mundi guarda i tormenti e le disgrazie dell’umanità. Una grande foto in prima pagina, tutti i giorni.
La rivista Life è stata l’antesignana di un tale modo di fare informazione, via via adottato anche dai quotidiani che hanno vivacizzato la propria grafica mutuandola dai settimanali. Ma il giornale della Chiesa Cattolica, “politico religioso”, come recita la testata, va ormai oltre. Schiaffeggia chi cerca di girare la testa dall’altra parte. In linea con la comunicazione che contraddistingue papa Francesco. Immediata, concreta, coinvolgente. Tesa a svegliare i dormienti, a esortare gli ignavi, a fustigare l’indifferenza. Dai credenti non pretende solo preghiere e riti. Esige impegni concreti e per questo è amato da chi non possiede il dono della fede ma vorrebbe una società migliore.
Qui ed ora, senza aspettare il regno dei cieli. Del quale non c’è una foto.
Marco Cianca