Il tema degli infortuni sul lavoro aspetta da tempo nel nostro Paese una disciplina omogenea e moderna, a che punto siamo?
Un quadro di riferimento normativo omogeneo non è solo utile, ma anche necessario. Un compito complesso che oltre a conciliare normative comunitarie e nazionali, deve anche innovare e modernizzare la legislazione italiana, che sul tema è per lo più ferma agli anni ’50. Ma il Testo unico così come è stato pensato non ha tenuto conto di alcuni principi basilari che le Regioni intendono rivendicare.
A quali aspetti si riferisce?
In primo luogo il ministero del Lavoro, che ne ha curato la stesura, ha agito senza alcun confronto con le Regioni, scelta che contrasta con la riforma costituzionale che ha determinato per la materia piena competenza concorrente. Lo stesso Consiglio di Stato, nell’esame preliminare del decreto legislativo, ha invitato il ministero a valutare con estrema attenzione il parere delle Regioni e ad attenersi a una tecnica legislativa attinente al profilo costituzionale che assegna al dicastero il compito di delineare solo i principi generali e non di stabilire norme di dettaglio, così com’è accaduto.
Le Regioni avevano elaborato delle proposte?
Già nel dicembre 2003 abbiamo presentato delle ipotesi di lavoro e una piattaforma di proposte, grazie ai risultati di un’indagine, unica in Italia e in Europa, il “Monitoraggio sull’applicazione del 626”, un esperimento con una connotazione non solo conoscitiva, ma di confronto del servizio pubblico delle imprese, di verifica dell’impatto della normativa. Inoltre è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra Regioni, Inail e Ispesl che rompe la prassi autoreferenziale e stabilisce una stretta collaborazione tra i tre istituti, finalizzata ad elaborare flussi informativi sui dati degli infortuni sul lavoro e delle malattie legate al lavoro. Questo strumento potrà garantire una conoscenza del fenomeno, dei profili di rischio, che ci aiuta nella definizione di politiche di prevenzione. Anche il ministero del Lavoro intende ora associarsi all’iniziativa: ci auguriamo non entri per legge, ma per adesione convinta
Nel merito del decreto legislativo le Regioni cosa criticano?
In sede di Conferenza Unificata, tutte le Regioni, ad eccezione della Regione Lazio, hanno espresso parere negativo e i motivi sono diversi. In primo luogo la proposta avanzata è stata considerata nel complesso non adeguata a realizzare gli obiettivi di razionalizzazione contenuti nella legge delega e non recepisce, se non marginalmente, le indicazioni emendative avanzate dalle Regioni. C’è la preoccupazione che il Testo unico possa agevolare possibili arretramenti rispetto al principio, stabilito dell’art. 2087 del Codice civile, della massima sicurezza tecnicamente possibile affidata al datore di lavoro. Avallando il principio che il datore di lavoro abbia discrezionalità di passare come norme buone tecniche o buone prassi, si instaurano elementi fortemente discrezionali che non garantiscono la certezza del diritto. Il decreto riconduce un principio tecnico in principio costituzionale e questo non pare essere in linea con la dottrina giurisprudenziale. Inoltre questo conduce a un incremento e non a un alleggerimento dell’apparato normativo, con il conseguente rischio di disomogeneità, che certamente non aiuterà l’emersione delle imprese, soprattutto quelle piccole, verso la regolarità.
Il ruolo che il ministero del Lavoro ha previsto per gli enti bilaterali vi trova favorevoli?
Fondamentale il ruolo degli enti bilaterali quale momento di maggior coinvolgimento e partecipazione sociale al processo di prevenzione.
Il Testo unico affida loro la certificazione della sicurezza e da questo nasce un mandato che comprende anche la vigilanza e il controllo. Su questo le criticità sono almeno due: gli enti bilaterali possono essere considerati responsabili, rispondono della loro certificazione? Non dovrebbero provvedere al sostegno delle imprese, piuttosto che alla certificazione della sicurezza? Riteniamo infatti che gli organismi bilaterali possano e debbano intrecciare la loro attività con quella dei servizi pubblici, soprattutto nelle fasi di informazione, formazione, assistenza. L’attività di controllo e di vigilanza dei servizi pubblici deve, invece, rispondere a criteri individuati indipendenti sulla base di un libero confronto con le forze sociali e soprattutto da una analisi delle condizioni di rischio presenti nel territorio.
Allora a chi sarebbe più opportuno affidare compiti di certificazione?
Seconde me bisognerebbe consolidare l’adozione di procedure di qualità in un processo di miglioramento continuo delle misure di sicurezza e di tutela della salute. Non certificazione, ma conformità della corretta gestione della sicurezza. Al datore di lavoro va conservata la responsabilità di attuare le norme previste e alle istituzioni la supervisione, ovvero il controllo della pratica attuazione delle regole.
Quindi la vigilanza alle Regioni?
La sicurezza è un binomio tra regolarità dei rapporti di lavoro e il rispetto delle norme di prevenzione. Le Regioni propongono che il primo aspetto sia verificato dall’ispettorato del lavoro, mentre le direttive di prevenzione e igiene sul lavoro sia affidato alle aziende Usl. Il coordinamento finale tra queste attività, inteso soprattutto a sviluppare e consolidare sinergie per le politiche di prevenzione sul territorio, deve essere affidato alle Regioni, così come era già stato deciso nell’art. 27 del decreto legislativo 626/94. Un coordinamento che non si esplica solo in attività di vigilanza, ma anche nel sostegno al sistema produttivo.