Emilio Miceli, segretario confederale Cgil con delega all’industria, parla col Diario del Lavoro di riforma dei contratti, salario minimo, transizione ecologica e molto altro.
Miceli, malgrado i molti allarmi la stagione dei rinnovi contrattuali sembra partita bene: i Chimici hanno concluso in pochissimi giorni con un aumento di ben 204 euro, subito dopo si è rinnovato anche il contratto della Sanità privata, dopo otto anni di ritardo, e a breve è prevista la chiusura positiva di altri importanti contratti. Eppure, la narrazione corrente vede il sindacato accusare le imprese di non voler aumentare i salari e le imprese, da parte loro, affermare di non averne i mezzi. Come stanno le cose, dal suo punto di vista?
Faccio una premessa: la stagione contrattuale non può mai essere ininfluente rispetto alle condizioni di vita delle persone, e se i contratti non sono in grado di far fronte all’inflazione, decretano la propria fine. Dalla chimica viene esattamente questo segnale: la capacità di reazione di fronte a un effettivo impoverimento delle persone. Non si tratta di ripetere a memoria gli accordi sul modello contrattuale, ma di saperli adeguare ai tempi. I chimici hanno mostrato di saper dare una interpretazione dinamica del modello contrattuale. Dunque, è la prova che si può fare. Ciò detto, è ormai aperto il campo a una riflessione complessiva sull’attuale modello contrattuale: che paradossalmente rischia di andare fuori gioco sia con inflazione negativa, sia con l’inflazione alta. E’ un campanello d’allarme da cogliere.
Andrebbe modificato il sistema contrattuale stabilito dal Patto della Fabbrica del 2018? E in che direzione?
Ci sono sicuramente cose da rivedere. Abbiamo verificato sul campo tutte le inadeguatezze di un modello triennale di contrattazione: i cicli sono troppo stretti, la contrattazione integrativa tende a saltare e non si ha nemmeno il pregio di essere tempestivi nella negoziazione dell’inflazione. Con il sistema dei tre anni abbiamo accumulato ritardi sia nei rinnovi, sia nello sviluppo della contrattazione aziendale, che si è continuamente intrecciata con il contratto nazionale.
C’è chi, come Innocenzo Cipolletta, a lungo direttore generale in Confindustria, ha proposto una contrattazione annuale. Secondo lei, sarebbe praticabile?
Un modello funzionale, in cui si da al contratto un tempo ragionevole di verifica, è di quattro anni. Poi, si può anche decidere che la verifica si fa ogni anno, o ogni due. Ma c’è anche la questione della produttività: è innaturale che il tema non stia nel contratto nazionale, si tratta di un indicatore che deve accompagnare tutte le relazioni industriali, sia nazionali che aziendali che di settore Invece il nostro modello contrattuale è a compartimenti stagni, e questo ha anche impoverito la cultura delle relazioni industriali. Dunque, durata del contratto, produttività e inflazione sono tre temi sui quali varrebbe la pena di aprire una riflessione. Ma oggi siamo in emergenza, e non possiamo permettere che il contratto diventi uno degli strumenti dell’impoverimento delle persone
Tuttavia sembrerebbe che il sindacato, da molti anni a questa parte, abbia sottovalutato la questione salariale, per riscoprirla oggi all’improvviso. E’ così?
Le faccio un breve riassunto degli ultimi tre decenni. Primo: abbiamo avuto una riorganizzazione gigantesca del lavoro, con una forte spinta legislativa alla precarizzazione iniziata a metà degli anni 90, dal pacchetto Treu del governo Prodi in poi. Secondo: abbiamo avuto, in parallelo, una altrettanto gigantesca riorganizzazione del modello di impresa, lungo le coordinate che potremmo riassumere in “un mondo, un mercato”, con un salario totalmente legato a questa visione globalistica. Terzo: come sindacato abbiamo dovuto sostenere un grande sforzo per evitare, almeno un paio di volte, che questo paese andasse in bancarotta, e mi riferisco alla crisi dei primi anni 90 e poi del 2008 e 2011; quando si parla dei salari alti di Francia e Germania, bisognerebbe anche ricordare che il sindacato italiano si è più volte fatto carico, sulle sue spalle, di un paese che stava andando in fallimento. Infine: abbiamo avuto un processo di scomposizione dell’impresa, del modo di produrre, che ha determinato differenze di livelli tra milioni di persone, nell’industria e nei servizi, mentre le nostre grandi imprese alienavano parti importanti dei loro cicli produttivi. In tutto questo, il sindacato italiano ha sempre cercato di governare questi processi e di tenere insieme il paese.
Quindi mi sta dicendo che, per mille buone ragioni, avete effettivamente trascurato la questione salariale, e ora volete recuperarla. Giusto?
Non ho riluttanza a dire che un sindacato confederale deve sapersi confrontare coi grandi temi del paese. Il problema è quando lo si chiede solo a noi, quando la politica fa Ponzio Pilato e lascia libere le imprese di fare a pezzi modelli e storie. La ragione per cui abbiamo i famosi mille contratti, di cui la maggior parte pirata, censiti dal Cnel, è che il modello di imprese è stato smantellato, e questa scomposizione ha avuto come unica ragione i costi. La rottura o l’indebolimento del modello contrattuale è dovuta a questo metaverso. Mi lasci dire che l’uso del contratto, da parte di un buon numero di imprenditori, è stato a dir poco amorale.
Da qui deriva tutto: precariato, morti sul lavoro, scarsa qualità del prodotto e ovviamente bassi stipendi.
Per la Cgil il salario minimo potrebbe essere una risposta a queste storture? E se si, perché in Italia la discussione su questo terreno è così complicata?
In Italia, a differenza di altri paesi, abbiamo un modello contrattuale completo, che comprende tutto il lavoro: la discussione sul salario minimo si svolge sempre in presenza di quel convitato di pietra, secondo me positivo, che è il contratto nazionale. Il secondo problema è che la Costituzione riconosce il valore erga omnes dei contratti, ma non delle tabelle retributive: c’è bisogno di una penna fine e delicata che sappia scrivere un provvedimento legislativo senza rischiare di indebolire la funzione del contratto nazionale.
Spieghi meglio.
Se si scriverà una legge sul salario minimo, come ritengo avverrà, è fondamentale sapere che quella legge dovrà salvaguardare la funzione dei contratti nazionali come strumento erga omnes, scongiurando il rischio che si crei una contrapposizione tra erga omnes salario minimo, e erga omnes contratto nazionale. In altre parole: se si va dal giudice del lavoro, egli applicherà il salario minimo, o l’insieme del contratto? Questo è il punto assai delicato e rischioso. Non c’è dubbio che la povertà sempre più diffusa richieda un intervento regolatorio che elimini certi obbrobri di salari da fame, ma questo non può andare a scapito del contratto nazionale. La legge deve essere chiara. E aggiungo: mi piacerebbe molto se la legge prevedesse anche un divieto per le imprese di scegliersi il contratto da applicare sulla base di quello che costa meno.
A proposito di imprese e di povertà: come vede il futuro della nostra economia reale, delle nostre aziende, alla luce della transizione ecologica?
Non sarà un passaggio semplice. A parte il prezzo attuale del gas, e altre circostanze che si spera rientrino in breve, la transizione comporta una serie di problematiche che non mi sembra si stiano considerando come meriterebbero. Il quadro peggiore, per l’industria italiana ed europea, è quello di una nuova divisione in due aree: una alimentata da fonti rinnovabili, cioè l’Occidente, e un’altra in cui si continuerà a produrre con le fonti fossili, petrolio, gas, carbone. Nella prima area ci sono, mal contati, 800 milioni di abitanti; nella seconda 7 miliardi. In questo modo, mi sembra chiaro che il Pianeta non si salva. Ma non si salva nemmeno l’Occidente: perché prima l’industria di base, e poi anche quella di trasformazione, emigreranno verso i luoghi dove ci sono le materie prime, cioè l’altra area di cui accennavo prima.
C’è un modo per evitare questa migrazione?
Riconvertendo subito il nostro sistema produttivo. E dobbiamo farlo partendo dal Sud, dove oggi è collocata praticamente tutta la nostra industria pesante, dall’Ilva di Taranto agli impianti di Brindisi e Siracusa, al Sulcis ecc. Tutta questa industria va cambiata, e va cambiata ora, va resa inoffensiva per il clima. Altrimenti è finita, si chiude.
Appare una impresa colossale, però. Non verrebbe da pensare che, alla fine, tanto vale lasciare perdere l’industria pesante?
Ma se cosi fosse, l’Italia, privata della siderurgia, chimica, alluminio, eccetera, non sarebbe più un paese industriale. E sì: si tratta di una impresa colossale, per realizzarla occorrono risorse pubbliche e private gigantesche, che consentano di utilizzare tutto quello che la scienza e la tecnologia offrono come tappa intermedia in un processo di riconversione ecologica. Ma è l’unica strada per evitare, nei prossimi anni, una spaventosa sequenza di delocalizzazioni e dismissioni.
Questo vale anche per l’auto elettrica, altro appuntamento non poco cruciale?
Le fabbriche di bielle sanno già che nel 2028 dovranno chiudere, perché il motore a scoppio uscirà di scena, non è che aspettano il 2035. La data del 2035 indica già oggi che intere filiere nei prossimi anni inizieranno a muoversi. Ma noi a questo “movimento” stiamo assistendo con una nonchalance che non ci possiamo permettere, senza avere un piano di politica industriale consapevole. Non possiamo pensare di cavarcela con gli ammortizzatori sociali, occorre sostenere tutto un processo di riconversione con risorse pubbliche e private. Inoltre, faccio notare che nel Pnrr non si parla della riconversione dell’industria, non c’è nessun finanziamento per il ricorso a tecnologie intermedie. Purtroppo devo dire che, a parte inseguire le singole vertenze, non vedo da parte dei decisori nessun segnale di consapevolezza e di attenzione, nessuna idea di come passare da una riva all’altra di quel fiume in piena che è la transizione senza affogare.
Nunzia Penelope