La regolarizzazione dei migranti rappresenta un cambio di rotta decisivo, che ci allontana, in parte, dalle politiche migratorie di Salvini. Una sensibilità diversa che per Giovanni Mininni, segretario generale della Flai-Cgil, si ritrova nell’attuale esecutivo, nonostante le reticenze dei 5 Stelle. Per Mininni la regolarizzazione è un fatto molto rilevante, che segna un primo tassello importante verso la legalità e il riconoscimento di un’esistenza dignitosa a queste persone. Ma la strada da fare è ancora tanta.
Mininni, avete definito un traguardo storico la regolarizzazione dei migranti
Per noi ha una portata storica. Il tema della regolarizzazione dei migranti è, da tanti anni, una delle battaglie più care alla Flai. Siamo stati tra i primi a sollevare questo problema. Lo scorso 25 marzo, assieme ad altre associazioni, come Terra, abbiamo inviato una lettera al presidente Mattarella e al governo. L’approvazione di questo decreto è un primo significativo tassello verso la legalità.
Come valuta la gestione politica dell’intera vicenda?
L’esecutivo si è dimostrato sensibile verso questo tema, sia la ministra Bellanova che il Vice Ministro Mauri Il decreto è un risultato positivo, frutto ovviamente di un percorso di mediazione tra le forze di maggioranza, con punti migliorabili. Ci sono state delle resistenze, alcune anche giuste, da parte di determinate posizioni interne al Movimento 5 Stelle, come il non offrire una sanatoria a chi ha sfruttato il lavoro. Nel complesso dunque si registra un cambio di passo, sul tema dell’immigrazione, di questo governo rispetto a quello precedente.
Tuttavia i decreti sicurezza di Salvini non sono stati ancora abrogati, e i 5 Stelle non sembrano intenzionati a percorre questa strada.
Purtroppo si è vero.
Anche perché sconfessare questi decreti vorrebbe dire, per i pentastellati, sconfessare più di un anno di governo.
Assolutamente sì. Come detto c’è una parte dei 5 Stelle, e del suo elettorato, che ha una sensibilità molto vicina alla Lega sul tema dell’immigrazione, penso a Di Maio e Crimi. Altri, come Fico o Morra, esprimono posizioni più vicine agli ideali di sinistra. Ma sulla regolarizzazione devo dire che anche una parte del pensiero di sinistra ha dimostrato una certa reticenza. La stessa sinistra che ha plaudito alla regolarizzazione fatta recentemente in Portogallo, ma che per effetti e tempi impallidisce con quella dell’Italia, è fortemente critica con questo provvedimento. In Europa siamo il primo paese ad avere adottato una normativa di questa portata, seppure limitata solo ad alcuni settori.
Ma è noto che l’immigrazione è un tema che non porta consenso al partito o al politico di turno, anzi, semmai, è un modo per perderlo. Basti vedere la Merkel in Germania con la questione dei profughi siriani.
Purtroppo è così. Ma non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando sempre di esseri umani che hanno diritto a una vita dignitosa. L’immigrazione dovrebbe essere affrontata come maggior rigore e serietà, mettendo da parte le bandierine politiche. Il consenso della Merkel, probabilmente, è iniziato a scendere proprio su questo punto. Inoltre la cancelliera tedesca accolse i siriani, che hanno un’elevata formazione professionale, con una mossa da realpolitik.
Tornando al decreto, mi pare di capire che, a vostro giudizio, ci sono luci ed ombre. Quali punti avete maggiormente apprezzato?
Nel decreto ci sono degli elementi innovativi consistenti, come la possibilità per il datore di lavoro di regolarizzare chi è a nero dichiarando la sussistenza di un lavoro irregolare ma anche attraverso l’attivazione di un nuovo rapporto di lavoro. In questo modo il lavoratore ha la possibilità di avere un permesso di soggiorno di un anno, se già si trova in Italia e lavora, o di 6 mesi se il suo permesso è scaduto il 31 ottobre 2019. Si tratta di due canali che danno alle persone la possibilità di muoversi sul territorio per trovare un’occupazione, e che avviano verso un futuro di legalità e minore precarietà.
Quali aspetti andrebbero migliorati?
Prima di tutto pensiamo che la finestra dal 1° giugno al 15 luglio sia troppo breve per presentare le domande per la regolarizzazione. Inoltre il datore di lavoro deve versare una quota di 500 euro per ogni dipendente che intende regolarizzare. Noi abbiamo proposto di abbassarla a 100, per non discriminare i piccoli imprenditori. Infine quando il lavoratore presenta alla questura la richiesta di permesso, in attesa che gli venga riconosciuta, deve continuare a prestare la sua opera presso lo stesso datore di lavoro. Ma queste procedure della burocrazia stridono con i tempi e le modalità del lavoro agricolo, che è fatto soprattutto di contratti a giornata, che obbligano i lavoratori a spostarsi.
Alcune associazioni di settore, come la Coldiretti, denunciano tempi molto lunghi, che porteranno ad avere i primi lavoratori sui campi non prima di metà settembre. Ritiene plausibile questa prospettiva?
Stimiamo che nei ghetti ci siano circa 170mila lavoratori, saliti a 200mila con i decreti sicurezza che hanno cancellato il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta di manodopera subito disponibile, dunque non credo che ci sia un allungamento dei tempi così significativo.
La regolarizzazione potrebbe causare un’inflazione della manodopera, con persone pronte a venire sul nostro territorio, e quindi con un abbassamento anche delle condizioni occupazionali?
Teoricamente è possibile, ma nella pratica non è così. Il decreto specifica, infatti, che possono fare richiesta solo quei migranti che riescono a dimostrare che si trovano in Italia almeno dall’8 marzo. Quindi non c’è nessun incentivo a un’immigrazione incontrollata.
C’è poi il tema dell’impiego dei percettori di ammortizzatori sociali, come il reddito di cittadinanza, in agricoltura, e di una crescente richiesta di lavoro, da parte degli italiani, per far fronte agli effetti negativi della pandemia. Cosa ne pensa?
Il decreto contempla l’impiego in agricoltura dei percettori di ammortizzatori sociali, come il reddito di cittadinanza, secondo determinati parametri. Si tratta di una misura che però deve essere legata all’emergenza, e non strutturale. Prima di tutto perché non si può obbligare nessuno a lavorare nei campi. E poi non possono esserci persone che stabilmente prendono sia un sussidio che un salario. Chi lavora deve poter condurre una vita dignitosa grazie al proprio lavoro. Sulla questione della presenza degli italiani, se ce ne fossero di più sarebbe un fatto positivo. Resta il fatto che molti hanno abbandonato l’agricoltura perché non sempre offre delle condizioni lavorative buone e, nonostante le tecnologie, resta sempre un lavoro faticoso.
Secondo lei, senza lo scoppio della pandemia, si sarebbe arrivati a una normativa di questo tipo?
Questa è una bella domanda. È difficile dirlo. Probabilmente non ci sarebbe stata una simile rapidità. Abbiamo comunque riscontrato un’attenzione da parte di alcune forze politiche, quindi le basi per portare avanti questa discussione erano presenti. Come detto dobbiamo affrontare la questione dell’immigrazione con serietà e rigore. I ghetti sono una vergogna per questo paese, e non sono tollerabili condizioni disumane, senza nessun rispetto della dignità e della salute delle persone. Inoltre la presenza di manodopera immigrata nella nostra agricoltura è un aspetto ormai strutturale, anche per motivi demografici. Perseguire la strada della legalità vuol dire anche valorizzare chi, in questo settore, rispetta le regole, far si che queste persone diano il proprio contributo alla collettività e combattere odiose forme di dumping, che penalizzano lavoratori e imprese.
Tommaso Nutarelli