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Non è tutto smart quello che luccica

Nunzia Penelope
Aprile01/ 2022

Dal primo aprile 2022, dopo ben 790 giorni, l’Italia è ufficialmente fuori dallo stato di emergenza e si prepara a tornare alla ”normalità”. In questi 790 giorni sono cambiate molte cose; alcune in peggio, alcune in meglio, alcune a breve termine, alcune per sempre. Una di quelle destinare a restare è lo smart working: esploso col lock down della primavera 2020, per consentire al paese di proseguire almeno in parte molte attività, si è rivelato un metodo di lavoro di grande successo. Tanto che la sua applicazione, regolata sullo stato di emergenza e quindi teoricamente destinata a concludersi con esso, è stata confermata da una lunga serie di accordi aziendali che introducono e regolamentano il lavoro da remoto come forma normale di prestazione, da affiancare, con pari dignità, a quella in presenza.

La novità dello smart working ha portato una ventata di rinnovamento anche nelle relazioni industriali: molti capi azienda spiegano che col sindacato oggi più che ”contrattare” si decide assieme la nuova organizzazione del lavoro, in un’ottica di grande collaborazione. Altro importante cambiamento: la parola ”flessibilità”, per decenni intesa come qualcosa di utile alle aziende ma dannosa per il lavoratore, viene ora declinata diversamente: perché è il lavoratore stesso a chiederla. La flessibilità – di prestazione, di luogo, di orario – è ormai sempre più spesso la condizione che il lavoratore pone per accettare o meno un posto di lavoro; e concederla, spiegano le aziende, è indispensabile per attrarre, o anche solo tenersi, le professionalità migliori, i talenti, i giovani, assai pronti a mollare un posto che costringe in presenza a favore di uno che conceda la possibilità di autogestirsi da casa o altrove.

E probabilmente altre novità si vedranno nei prossimi mesi e anni. Per esempio, i contratti nazionali dovranno in qualche modo tenere conto del fatto che l’orario di lavoro, e quindi la paga oraria, con lo smart working avranno meno senso; mentre si dovrà ragionare su come definire aumenti delle retribuzioni basate su obiettivi. Peraltro la retribuzione, sempre più spesso, non è la prima voce di interesse per il lavoratore, scavalcata dalla possibilità di organizzarsi in autonomia e flessibilità i tempi e i luoghi di lavoro.

Quella che si sta aprendo è dunque una stagione completamente nuova per il mondo del lavoro e le relazioni industriali. Lo sintetizza bene il titolo di uno dei tanti accordi aziendali sullo smart working stipulati in questi ultimi mesi, quello dell’Enel, rivolto a 70 mila dipendenti in numerosi paesi e battezzato ”A new way of working”, “un nuovo modo di lavorare”. Un nuovo modo di lavorare che, tuttavia, non riguarda solo le aziende più innovative di terziario, servizi, finanza, eccetera, ma anche un mondo “antico” e ancora sostanzialmente manifatturiero come quello dei metalmeccanici. Sono infatti ben 500 mila, su una platea di due milioni e mezzo di addetti, le tute blu che lavorano da remoto, la stessa cifra che si riscontra nel pubblico impiego: anche qui sono 500 mila, ma su una platea ben più vasta, pari a 3 milioni 200 mila dipendenti. E se sembra un paradosso che i metalmeccanici possano lavorare da casa più degli impiegati, occorre ricordare che nel settore pubblico c’è una quota enorme di persone che non è in nessun caso ”remotizzabile”: infermieri, medici, forze di pubblica sicurezza, solo per citarne alcuni. Anche nel privato coloro che allo smart working non possono accedere (dal manifatturiero, all’artigianato, ai servizi alla persona) sono milioni. E qui tocca affrontare uno dei punti negativi, o almeno interrogativi, rispetto al lavoro da remoto: perché sempre ci sarà chi avrà accesso alla famosa conciliazione tra tempi di lavoro e di vita, e chi invece sarà costretto in presenza. Si rischierà forse di dividere ulteriormente il mondo del lavoro tra ”smartabili” e non, tra ”conciliati” e ”inconciliabili”? E con quali effetti?

E ancora: quello che si sta affermando negli accordi aziendali è un modello di lavoro definito ibrido, che prevede una quota di giorni mensili (dieci, dodici, tredici, a seconda delle aziende) nei quali si può lavorare da casa, il resto in presenza. Ma il passaggio al sistema ibrido non sarà semplicissimo: richiede una rigorosa programmazione, uno sforzo organizzativo non irrilevante sia per l’azienda, sia per i dipendenti, nel definire di comune accordo turni, presenze, incarichi, gestione degli spazi comuni, eccetera. Una inchiesta dell’Economist nelle scorse settimane rivelava che, secondo un campione di 600 responsabili delle risorse umane, il sistema ibrido risulta ”emotivamente stressante”, per i dipendenti e per chi deve gestirli.

Infine c’è un grosso salto culturale ancora da compiere. Se è finita “l’epoca dell’occhio del padrone”, secondo un modo di dire corrente, esiste sempre il vecchio detto ”lontano dagli occhi, lontano dal cuore”: in altre parole, si rischia di penalizzare, anche in termini di carriere, quei lavoratori che per varie ragioni tenderanno a ricorrere con più frequenza al lavoro da casa. E questo significa penalizzare innanzi tutto le donne. Rischio aumentato anche dal fatto che le recenti normative sullo smart working prevedono una corsia preferenziale di accesso per chi ha figli minori di 12 anni, o disabili e anziani che necessitano di assistenza. E se questo da un lato ”concilia” il lavoro con la vita quotidiana, difficilmente si concilia con la carriera. (E, sottolineo, anche con la produttività: se devo occuparmi di bambini, disabili, anziani, malati, difficilmente potrò nello stesso momento essere concentrata sul lavoro, come ben sanno i milioni di donne che durante la pandemia sono state costrette a gestirsi in questi difficilissimi termini). Questo sommarsi tra lavoro e lavoro di cura, pensato certamente a fin di bene, finirà per riguardare ancora una volta quasi esclusivamente le donne, mettendole in condizione di essere ghettizzate in un ambiente sempre più “domestico-lavorativo”.

Per il momento, però, come dimostra una indagine della Fim Cisl condotta su un campione di cinquemila metalmeccanici, i lavoratori promuovono lo smart working con un voto di ben 8 su 10 decimi. L’indagine rivela tuttavia che il 58% preferisce il modello ibrido, con solo due o tre giorni a settimana da casa, mentre il 28% vorrebbe tutto e sempre da remoto. Inoltre, il 25% soffre la mancanza di contatto coi colleghi (contro il 14% che è invece felice del maggior rapporto coi figli), mentre il 10% accusa l’eccessiva solitudine dovuta alla remotizzazione. Ma vale la pena di sottolineare, anche, che il 65% del campione in esame è di sesso maschile, e per oltre la metà ha più di 45 anni.

Il lavoro da remoto, insomma, è un’innovazione bellissima, che costringerà aziende, sindacati, l’intero mondo del lavoro, a reinventarsi, a diventare più moderno e flessibile; ma non tutto quello che luccica è smart. Molte cose sono ancora da risolvere, studiare, capire. E’ un mondo nuovo, del resto, e dunque va esplorato con entusiasmo ma anche prudenza. Consapevoli che può offrire straordinarie possibilità, così come nascondere qualche trappola, e qualche imprevedibile rischio.

Nunzia Penelope

Nunzia Penelope

Giornalista

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