Sorpresa! Il mondo va a sinistra. Chi si è sempre sentito su questo versante della politica esita a dirlo: un po’ per incredulità, un po’ per scaramanzia. Ma sul senso di marcia è impossibile sbagliarsi: nel giro di neanche due anni, l’economia, e, soprattutto, la sua interpretazione intellettuale hanno compiuto una inversione a U. Vero: i due concetti – destra e sinistra – negli ultimi decenni si sono indeboliti, schiariti, smussati, annebbiati, come centinaia di saggi ed articoli ci hanno profusamente spiegato. Eppure, la barra, spiegava Norberto Bobbio, è facile da fissare: è l’eguaglianza. E allora, se Ursula von der Leyen rastrella quattrini in tutta Europa per darli a fondo perduto a paesi sfigati e discoli, come l’Italia, e Joe Biden tassa contropelo profitti e straricchi, di sicuro qui, ad Occidente, non pendiamo a destra.
La pandemia, con la sua eccezionale richiesta di risorse e solidarietà ha accelerato il processo. Ma, anche se ha preso velocità solo in questi mesi, il ribaltone che ha rovesciato i pilastri fondamentali della dottrina neoliberista era già in corso. Prima, con la crisi finanziaria del 2008 e il crash di tutto il castello della deregulation. Poi, a partire dal 2015, con il flop e la sconfessione del mantra dell’austerità.
Dopo la sbornia socialdemocratica e keynesiana del dopoguerra, il mondo comincia ad andare a destra negli anni ’80, con Reagan e la Thatcher: smantellamento di vincoli e regole, con la deregulation della finanza, liberalizzazioni, ostilità al sindacato, privatizzazioni, drastico taglio delle tasse sui profitti aziendali e sui redditi dei più ricchi. Gli effetti sociali sono vistosi. Tanto per avere un punto di riferimento, il 10 per cento più ricco degli americani, fra il 1989 e il 2016, si ritaglia una ulteriore fetta, pari a 10 punti percentuali, della ricchezza nazionale, passando dal 67 al 77 per cento del totale: quasi un esproprio di massa.
Tutto questo si rispecchia nella rapida conquista di una egemonia intellettuale, presto inquadrata in quello che, a partire dalla metà degli anni ’90, verrà chiamato Washington Consensus. E’ un ventaglio di diagnosi e ricette – meno tasse, meno spesa pubblica, meno regole, più privato e più mercato – su cui convergono grandi istituzioni globali (Fmi, Banca mondiale, Ocse), le banche centrali dei paesi industrializzati, larga parte della classe politica e che troverà applicazione nelle crisi finanziarie dell’America latina e dell’Asia alla fine degli anni ’90, ma proietterà, poi, la sua ombra per altri vent’anni.
L’edificio comincia a traballare, quando la crisi del 2008 rivela le falle della deregolamentazione selvaggia della finanza. Le crepe diventano evidenti quando, soprattutto in Europa, si fa evidente l’autogol di una austerità che taglia i bilanci, mentre l’economia affonda. Il cambio di rotta inizia, come sempre avviene, nelle teste:è lì che il Washington Consensus, anzitutto, si sgretola. Prima ancora dei libri di Thomas Piketty e di Gabriel Zucman sugli eccessi del capitale, è l’ufficio studi del Fmi prima a mettere in dubbio, poi a smantellare la dottrina dell’austerità, mentre la Bce, sotto la spinta di Draghi, svuota il dogma che fa dello spread (nel caso specifico la differenza di rendimento dei titoli pubblici italiani e tedeschi) il termometro della virtù economica.
Poi arrivano i politici. Il Recovery Plan della Ue è una brusca sconfessione delle gelosie nazionalistiche in materia di emissione di titoli comuni europei. Ma è, soprattutto – basta guardare le linee dei piani presentati dai singioli paesi – la celebrazione (inedita negli ultimi quarant’anni) dell’importanza di un massiccio intervento pubblico, anche nelle aziende (in Italia, ma non solo) e negli investimenti, senza scrupoli di deficit di bilancio: si scopre che, se una economia cresce, può anche permettersi qualche debito.
Tutto ciò in Europa è ufficialmente temporaneo e, in materia di debiti, è anche questione, naturalmente, di misura. Ma, più ancora dei contenuti, conta l’approccio mentale, completamente diverso. Soprattutto perché, in quello che è tuttora il baricentro dell’Occidente, cioè l’America, il mutamento, intanto, è vorticoso. Gli interventi di Joe Biden a favore delle classi medie e dei ceti più svantaggiati non vanno sopravvalutati nell’entità – anche se si tratta di centinaia e centinaia di miliardi di dollari – agli occhi di un europeo, perché principalmente tappano i buchi di un welfare made in Usa, assai carente rispetto agli standard d’Europa. Ma, ancora una volta, conta l’approccio: Biden si inoltra in una politica sociale che, ancora pochi anni fa, Obama neanche pensava di potersi permettere. Tuttavia, la svolta più vistosa è sul capitolo centrale della politica scaturita dagli anni di Reagan e della Thatcher: il fisco. Biden chiama le corporations e i più ricchi a finanziare in prima persona e in prima fila gli sforzi di rilancio e di ricostruzione del paese, ribaltando il principio che meno tasse sui patrimoni si traducano automaticamente in maggior spinta per l’economia: è la sconfessione di quello che è, probabilmente, da Reagan in poi, il principio fondante del neoliberismo.
E’ presto per dire cosa accadrà concretamente, in questi anni, in America e in Europa. Però, facciamo una lista di quelli che, almeno, sono i propositi: meno vincoli al ruolo dello Stato, più coscienza del rischio climatico, maggiore responsabilità sociale, più attenzione al riequilibrio delle diseguaglianze, più Europa per gli europei. Governi così verdi e così keynesiani, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, tre anni fa sarebbe stato difficile immaginarli. Che poi mantengano le promesse è tutto da vedere. Ma i parametri con cui saranno giudicati sono parte di una visione del mondo che sembrava dimenticata.
Maurizio Ricci