Vite ballerine. Era il titolo, azzeccatissimo, di un libro scritto da Bruno Ugolini nel 2016. Lo storico cronista del sindacato, indimenticabile nella sua appassionata serietà, dopo aver seguito per decenni le vicende confederali, in particolare della Cgil, impareggiabile studioso del carismatico pensiero trentiniano, dal 2001 al 2015 si era dedicato, sull’Unità, ogni lunedì, alla rubrica “Atipiciachi”. Paolo, Federico, Marianna, Antonella, Sissi, Maristella, Sofia. Storie di outsider, senza una collocazione fissa, alla ricerca di un modo per sbarcare il lunario. Sfruttati e senza diritti. Collaboratori, partite Iva, stagisti senza paga e senza formazione. I commessi, i reietti dei call center o delle imprese di pulizie, i rider, i falsi soci, i sub appaltati, quelli dei voucher.
Dopo l’entrata in vigore del Job Act, sui cui effetti nel libro ci sono pareri contrastanti, Ugolini si era soffermato di nuovo sulle loro vicende, non tanto per dare un giudizio negativo a priori e anzi ammettendo che si era cercato di mettere un po’ d’ordine nella frammentazione delle tutele, ma per concludere che le radici del male non erano state estirpate. La buona flessibilità, necessaria per la continua evoluzione dei sistemi produttivi, aveva ormai assunto il volto della sfrontata precarietà. Si è buttato il bambino (la fedeltà, la partecipazione, la produttività dei dipendenti) e si è conservata l’acqua sporca (lo sfruttamento).
Le polemiche di questi giorni intorno alle misure del governo battono sullo stesso tasto. Da Renzi alla Meloni. L’assioma di fondo non cambia: per facilitare le assunzioni bisogna rendere sempre più semplici e sicuri i licenziamenti. I contratti a termine, che in una rete di certezze potrebbero avere una propria funzione, vengono piegati ad una tale logica. Il lavoro conta solo per il suo costo. Anche il parziale e temporaneo taglio del cuneo fiscale, pur giusto in via di principio, rientra in questa concezione. I profitti comandano, i salari obbediscono. La dignità viene ridotta a corollario morale, senza alcuna valenza economica. Le parole “fannulloni “e “furbetti” riecheggiano spesso e volentieri nelle dichiarazioni dei vari ministri.
Come ben dimostra Marianna Filandri nel suo “Lavorare non basta”, la prestazione d’opera, persino se costante, quando è mal retribuita crea incertezza e affanno. Il lavoro povero conduce ad una condizione di minorità. La vulgata che non si trovano camerieri si basa su un presuntuoso e sprezzante preconcetto imprenditoriale: un’offerta d’impiego andrebbe sempre accettata, anche se il corrispettivo salario equivale ad una mancia. E con l’abolizione del reddito di cittadinanza scompare quel riferimento quantitativo che, pur tra distorsioni e imbrogli, di fatto rappresentava, in assenza di un salario minimo, un limite di decenza.
Precario deriva dal tardo latino precarium, cioè, spiega la Treccani, “ottenuto con preghiere, concesso per grazia”. Malsicuro, incerto, provvisorio. Non un diritto ma una temporanea elargizione, un favore accordato per generosità.
E poi, a ben vedere, la precarietà è il segno distintivo di questa epoca. Tardo capitalista, la definisce Ignazio Masulli. Il cui modello sociale “sembra voler e poter convivere con le sue stesse tendenze di crisi, quasi facendone tratti perduranti” per il proprio funzionamento. Il processo di ristrutturazioni, di delocalizzazioni, di automazione e di strapotere finanziario partito negli anni Settanta di fatto ha rotto quel patto sociale affermatosi nel dopoguerra in nome della ricostruzione e della democrazia e che è alla base della nostra Costituzione.
Via via, nel mercato del lavoro si è sviluppata una spietata concorrenza al ribasso, spazzando via garanzie e conquiste. È l’intera società ad essere diventata precaria. Ogni sommovimento, anche se devastante e improvviso come la pandemia o la guerra, viene riassorbito elidendo ancora di più i diritti. L’instabilità di fondo è la caratteristica costitutiva del sistema attuale, che resta sempre “sulla soglia di un’instabilità critica”. “Le fluttuazioni e i disequilibri – argomenta Masulli – diventano un fatto non transitorio, ma durevole”.
Poi ci sono le persone.
“Urlando contro il cielo”, cantava Ligabue dal palco di San Giovanni in questo Primo Maggio controriformista. Mentre i giovani, bagnati come pulcini, cercavano di scrollarsi di dosso la pioggia e la sfiducia.
Vite sulle punte. Vite sospese. Vite ballerine.
Marco Cianca