Ripartire dalla centralità del contratto nazionale, rafforzando anche la contrattazione territoriale. Per Antonio Zampiga, responsabile delle relazioni industriali di Legacoop, deve essere questo l’equilibrio al quale la parti sociali devono puntare. La crisi, spiega Zampiga, ha catalizzato problemi già esistenti, che richiedono uno sforzo congiunto di tutte le parti sociali per mettere in campo nuove soluzioni. È inoltre opportuno, afferma Zampiga, valorizzare quei lavori che, in piena pandemia, hanno rappresentato la spina dorsale del paese.
Zampiga, stiamo lentamente uscendo dal picco dell’emergenza sanitaria, ma le ripercussioni economiche e sul lavoro sono ancora tutt’altro che chiare. Quale scenario ci attende?
La crisi ha agito come un catalizzatore, portando in superficie molti problemi cronici di questo paese. Ci troviamo dunque davanti a vecchie difficoltà, a cui siamo tenuti a rispondere attraverso l’individuazione di nuove soluzioni. Dall’indagine effettuata dal nostro Centro Studi appare evidente che gli effetti economici della pandemia non si siano fatti sentire nella loro interezza. Le aziende sono ancora al riparo, sotto l’ombrello degli ammortizzatori sociali, che con questo ultimo provvedimento dovrebbero garantire copertura fino a luglio. Quando termineranno si dovrà ricorrere agli strumenti ordinari, la cui portata e strutturazione corre il rischio di non essere adeguata per fronteggiare la situazione attuale. La cooperazione ha dimostrato nel tempo una capacità di rispondere alla crisi anticiclica. In passato si è contrapposta alle diverse crisi garantendo l’occupazione ai propri soci e lavoratori facendo spesso ricorso alle proprie risorse interne, con una importante erosione del patrimonio. L’evoluzione e la velocità con la quale le crisi si sono succedute negli ultimi anni, non ultima quella del 2008, hanno impedito la naturale ricostituzione dei patrimoni interni limitando questa sua naturale capacità. Per questo prevediamo un autunno molto complicato, dove la tenute di molte imprese sarà messa fortemente in discussione con possibili ed importanti ricadute occupazionali.
Che cose chiedete alla politica che secondo voi andrebbe rivisto?
Come accennato in premessa, questa crisi ha posto in evidenza problemi cronici del nostro sistema. Ad una iniziale risposta del Governo alla crisi, concentrata su strumenti di emergenza, deve obbligatoriamente seguire una stagione di interventi strutturali che pongano le basi per una crescita stabile sul medio e lungo periodo. Avviare quindi un processo di riforme in grado di sostenere piani di politica industriale, da troppo tempo assenti nel nostro paese, di medio e lungo periodo. Dare quindi corpo, ad esempio, ad una riforma del sistema fiscale degna di questo nome. C’è, inoltre, una storica lentezza nel concretizzare i piani di investimento, che non seguono i tempi e le necessità del tessuto produttivo. Non è solo una questione di disponibilità di risorse.
Sul versante delle relazioni industriali, come si dovrà affrontare la ripresa?
Le parti sociali devono avere la capacità di individuare obiettivi comuni sui quali costruire nuove sinergie, sviluppando relazioni industriali in grado di dare risposta ai bisogni delle imprese e dei lavoratori. Replicare quindi lo spirito con il quale, ormai 30 anni or sono, venivano sviluppati i primi accordi interconfederali sulla contrattazione collettiva e su altri temi rilevanti del nostro paese. Puntare sulla partecipazione dei lavoratori. Ritengo sia importante ribadire la centralità del contratto nazionale, che offre la cornice di riferimento indispensabile per garantire a tutti i lavoratori quella base comune di diritti. Naturalmente dobbiamo accertarci che i contratti nazionali siano realmente applicati. Ma non possiamo non tener conto delle profonde differenze territoriali del nostro sistema produttivo, e rimodulare così la contrattazione.
Pensa a un ruolo maggiore di quella territoriale?
Sicuramente. La contrattazione territoriale è un modo per fare leva su quelle che sono le specificità di un territorio, e redistribuire le risorse in base alla produttività e alla reale capacità di un sistema di generare risorse. Dobbiamo tenere in debita considerazione la centralità del ruolo che le piccole e medie imprese ricoprono nel nostro paese ed offrire loro la possibilità di individuare soluzioni vicino ai loro bisogni senza obbligatoriamente pensare alla contrattazione aziendale, che rappresenta certamente una via percorribile solo per azienda più strutturate.
C’è poi la vexata quaestio della rappresentanza. Come andrebbe affrontata?
Come associazione abbiamo avuto modo di affermare pubblicamente la necessità di un intervento normativo sviluppato attraverso il dialogo con le parti sociali, che riporti in capo alle organizzazioni comparativamente più rappresentative, l’onere e l’onore di stipulare contratti collettivi a livello nazionale, individuando quelli che devono essere ritenuti contratti leader. Abbiamo la necessità di dare punti di riferimento chiari alle nostre cooperative, e gli oltre 800 contratti depositati al CNEL non aiutano in tal senso. Detto queso, riteniamo che la misurazione della rappresentanza non possa avvenire unicamente attraverso una conta dei lavoratori, ma tenendo conto anche della forma di impresa, combattendo così anche quelle che sono le false aziende, che violano le regole e che inquinano il nostro lavoro.
Come è stato il rapporto con il sindacato?
Il mondo delle cooperative si muove su diversi settori. In alcuni di questi il dialogo coi sindacati è stato proficuo, in altri meno. A livello confederale, stiamo portando avanti, assieme alle altre associazioni cooperative, un confronto serrato che auspichiamo si possa concludere con la revisione di alcuni protocolli datati (es. Sicurezza sui Luoghi di Lavoro) e alla stipula di nuovi accordi. Tra questi voglio segnalare l’accordo sul quale stiamo lavorando per la promozione ed una maggiore diffusione dello strumento del workers buyout. Noi crediamo molto nel valore dell’autoimprenditorialità, e auspichiamo che il governo vogli incentivarlo.
Si parla molto di dare avvio a un nuovo patto sociale. Secondo lei quali aspetti dovrebbe includere?
Ci sono temi dai quali non ci si può sottrarre, tra i quali l’equilibrio generazionale e l’equità sociale. Temi che possono che essere affrontati soltanto attraverso una riflessione attenta sul nostro sistema produttivo basato su una forma di capitalismo che, almeno in parte, andrebbe ripensata.Durante la pandemia la spina dorsale del nostro paese è stata sorretta da un insieme di lavori che definiremmo poor jobs. Questo non perché ci sia la volontà, da parte del datore, di remunerare poco i lavoratori, ma perché si tratta di settori a sostegno del sistema pubblico sui quali la scure delle varie spending review si è abbattuta troppe volte nel tempo. Credo che si debba ripartire da qui, ripensando l’intera struttura sociale, per una maggiore equità e una rivalutazione del lavoro. Tenendo bene a mente che senza lavoro non c’è impresa, e che senza impresa non c’è lavoro.
Tommaso Nutarelli